Cynthia Davidson, co-curatrice insieme a Monica Ponce de Leon del Padiglione degli Stati Uniti, illustra l’iniziativa “The Architectural Imagination”, volta al rilancio della città del Michigan colpita dalla crisi
Da diversi anni Detroit vive la grandissima crisi di una città in contrazione per via della smobilitazione di numerose attività economiche, legate al settore industriale, che hanno lasciato una pesante eredità di vuoti urbani ai suoi abitanti. Sulla pelle della città del Michigan le curatrici del Padiglione statunitense, designate ancor prima della nomina di Alejandro Aravena a direttore della Mostra Internazionale della Biennale, intendono condurre un esperimento di “rigenerazione urbana” attraverso un grande concorso (“The Architectural Imagination“) i cui esiti saranno esposti a Venezia. Un esperimento appoggiato da comitati come Detroit Resists – per «la sua capacità di impegnarsi in questa catastrofe [contro] la distruzione in corso della città». In un’ulteriore dimostrazione d’impegno per l’interesse pubblico, le curatrici hanno lanciato il concorso fotografico “My Detroit”, al fine di selezionare (su 463 partecipanti) 20 immagini della città da distribuire alla Biennale.
Quali sono le parole chiave, gli obiettivi ed i concetti alla base del padiglione statunitense?
Il concetto che sta alla base è l’immaginazione architettonica. Per illustrare questa idea Monica Ponce ed io abbiamo selezionato dodici team di architettura americani, chiedendo loro di redigere progetti ex novo per quattro distinti siti a Detroit. Ci sono tre proposte per ogni sito che speriamo dimostrino non solo l’alta creatività degli architetti in termini di urbanità ma anche l’abilità dell’architettura nel generare cultura e catalizzare cambiamenti. Per pura coincidenza sto leggendo il romanzo di Henry James Ritratto di signora del 1881, dove la protagonista Isabel Archer è raccontata come una donna di grande immaginazione grazie alla quale è spinta ad intraprendere una vita piena di scoperte personali. Quando Isabel vista San Pietro a Roma James scrive: «Il suo concetto di grandezza ricevette un’espansione. Dopo ciò, essa [la sua immaginazione] non mancò più di spazio per spiccare il volo». Io credo che James stia descrivendo non solo l’immaginazione ampliata di Isabel ma anche il potere di trasformazione dell’architettura, come quella di San Pietro, nel catturare ed espandere l’immaginario collettivo. Quando l’architettura o, nel nostro caso, l’immaginazione architettonica, stimola l’immaginario collettivo, l’architettura stessa diventa catalizzatore di cambiamento: sociale, politico e culturale.
Con che modalità è stata scelta Detroit come sito d’investigazione e intervento per la mostra in Biennale?
Il potere dell’immaginazione architettonica è maggiore quando paragonato alla realtà. Un esempio storico che possiamo citare è il manifesto Berlin: a Green Archipelago ad opera di Oswald Mathias Ungers e Rem Koolhaas (1977), ritenuto inoltre anche da Maurice Cox, il direttore urbanistico di Detroit, un punto di riferimento nel parlare di futuro della città. La mia co-curatrice ed io abbiamo scelto Detroit come sito per il progetto “The Architectural Imagination” sia proprio per il suo ruolo storico come locus d’intervento, sia per come rappresenta le questioni chiave che contraddistinguono molte delle città postindustriali del XXI secolo. Essendo la sede dell’industria automobilistica, l’industria di cemento, la casa discografica Motown, la musica tecno, Detroit è un centro importante dell’«immaginazione» americana a livello internazionale. Un tempo una delle più grandi città americane, oggi s’insinua nell’immaginario collettivo come una città con una popolazione in declino e un paesaggio urbano segnato da una piaga. Consideriamo le sfide che affronta Detroit come l’opportunità di portare l’immaginazione degli architetti, con i loro particolari modi di pensare in termini di programma e forma, al tavolo di discussione. Le loro proposte per i quattro siti – i quali includono edifici governativi industriali sia dismessi che limitatamente usati (il centro di smistamento delle poste, la Packard Plant), ma anche pezzi di territorio non edificati adiacenti a quartieri con un forte fermento culturale (Mexicantown e Eastern Market) e accessi sulla costa – stimoleranno molte discussioni sulle future possibilità per città postindustriali.
Qual è stata la reazione alla vostra chiamata e quali criteri avete adottato nello scegliere i designati?
Monica ed io volevamo rendere aperto il processo di selezione, dunque lo scorso luglio abbiamo pubblicato a livello nazionale una call for expression of interest per il progetto “The Architectural Imagination”. Abbiamo ricevuto più di 250 risposte, per un totale di circa 700 partecipanti in tutta la nazione. Nella scelta abbiamo voluto rispecchiare la diversità dell’architettura americana. Abbiamo selezionato firme affermate insieme a giovani studi, con progetti realizzati o meno. Alcuni sono basati proprio a Detroit, altri in California, Texas, Northeast e Georgia. Li accomuna è l’impegno nel produrre nuove idee nell’ambito sia dell’architettura come disciplina che come proposta progettuale. Alcuni hanno scelto un approccio paesaggistico, altri si sono focalizzati su questioni sociali, altri ancora su questioni di forma. Ma tutti vedono l’architettura come un serio progetto intellettuale.
In che modo il lavoro esposto alla Biennale serve agli sforzi odierni per rimettere in sesto Detroit?
Nel momento della scelta dei quattro siti abbiamo chiesto al nostro comitato scientifico dei leaders locali: «Quali siti necessitano di un lavoro di ragionamento progettuale?». In altre parole, dove possiamo chiedere agli architetti d’immaginare una nuova Detroit attraverso il pensiero architettonico invece che la risoluzione di problemi di vicinato? Tutti gli architetti hanno speso lo scorso autunno incontrando le varie comunità locali per discutere le loro esigenze ma anche per visitare le zone. Il risultato interessante è che tutte e tre le proposte per ciascuna location mostrano come non esista una soluzione progettuale univoca, un’unica via per “risolvere” il problema. Quando la Biennale chiuderà, la mostra riaprirà al Museum of Contemporary Art Detroit (Mocad), come momento catalizzatore per una serie di conversazioni sull’architettura con curatori, architetti ed il pubblico di Detroit nel senso più vasto possibile. Il Mocad spera di aiutare a sviluppare una più ampia letteratura progettuale nel bagaglio culturale della collettività attraverso l’idea di programmare queste conversazioni proprio all’interno dei siti in questione. Sarà una sorta di bonus a sorpresa se qualche progetto catturerà l’immaginario collettivo stimolando qualche tipo di sviluppo futuro.
Come sarà esposto il lavoro alla Biennale? Che cosa attenderà i visitatori?
I visitatori vedranno 12 differenti progetti rappresentati in un ampio ventaglio di tecniche differenti. Ognuna delle quattro sale del padiglione conterrà un sito e le sue tre proposte. Ogni proposta include un modello architettonico di circa 1,2 x 2.1 metri che sarà al centro della sala, insieme a diagrammi, disegni, collage, modelli di studio, bozzetti e video che riempiranno le pareti. Si pensi alle mostre d’arte del XIX secolo o al Soane Museum a Londra, ed è possibile farsi un’idea del senso di densità di “The Architectural Imagination”. I vari metodi di rappresentazione includono anche stereoscopi analogici e, durante il weekend d’inaugurazione, delle cuffie olografiche digitali. Monica ha disegnato l’allestimento, come anche tutte le corti da cui si accederà al padiglione. Stiamo documentando i progetti in un “cataLog”, un numero speciale di «Log», la rivista che il mio ufficio pubblica quadrimestralmente.
(Traduzione di Manuela Martorelli)
4 DELLE 20 IMMAGINI DEL CONCORSO FOTOGRAFICO “MY DETROIT”
CHE SARANNO ESPOSTE E DISTRIBUITE NEL PADIGLIONE AMERICANO ALLA BIENNALE
LEGGI L’INTERVISTA IN LINGUA ORIGINALE
Chi sono le curatrici
Cynthia Davidson (nata in Massachusetts, Stati Uniti nel 1952) è direttrice esecutiva di Anyone Corporation, think tank no profit di architettura basato a New York che organizza incontri, seminari e conferenze, oltre a pubblicare la rivista «Log: Observations on Architecture and the Contemporary City» e i libri Writing Architecture Series (con MIT Press). Per il suo impegno nel settore editoriale e della pubblicistica, nel 2014 Davidson ha ricevuto l’Architecture Award dall’American Academy of Arts and Letters.
Mónica Ponce de León (nata in Venezuela nel 1965) è docente e titolare di MPdL Studio. Dal 2008 al 2015 è stata preside del A. Alfred Taubman College of Architecture and Urban Planning presso l’Università del Michigan, mentre dal 2016 ricopre la medesima carica presso Scuola di Architettura dell’Università di Princeton. È stata co-curatrice della mostra “Michigan Modern” presso il Cranbrook Art Museum (2013) e il Grand Rapids Art Museum (2014).
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Last modified: 20 Aprile 2016
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