Intenso commento-testimonianza dell’architetta e storica ucraina Ievgeniia Gubkina che inaugura con Daniel Libeskind Mantovarchitettura 2025
La conferenza inaugurale di Mantovarchitettura 2025 proporrà un incontro-confronto tra due figure emblematiche del rapporto tra architettura e conflitto: Ievgeniia Gubkina e Daniel Libeskind. Rappresentanti di culture, generazioni e sensibilità diverse, hanno vissuto la guerra e l’impatto degli scontri geopolitici in epoche e momenti diversi, rendendoli materiali necessari e attuali della loro visione architettonica.
Gubkina, originaria di Kharkiv (nell’Ucraina orientale, capitale della Sloboda Ukraine, seconda città del Paese con circa un milione e mezzo di abitanti), sta affrontando la guerra sulla propria pelle in questi mesi dopo l’invasione russa del 2022. L’abbiamo incontrata, dal dialogo sono emerse alcune riflessioni sul tema.
La guerra è il problema più globale
La situazione ucraina è dolorosa e drammatica. Osservarla ci permette di tenere insieme le questioni locali (legate alla qualità dell’architettura e ai bisogni delle popolazioni) a componenti che sono assolutamente globali e che coinvolgono tutte le società del mondo. Le guerre non sono solo problemi locali (non appartengono ai soli paesi in guerra), ma di portata globale. Quale questione potrebbe esserlo di più? Quindi le risposte che possiamo sviluppare in Ucraina possono essere una soluzione per altri paesi.
Distruzione e comunità
Dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale (in città come Rotterdam o Varsavia tra le altre) ci furono molte demolizioni. Le ricostruzioni postbelliche sono entrate nei libri di storia, realizzate da noti architetti modernisti, ma in modo convenzionale, con un processo tipicamente top-down. A metà del XX secolo nessuno chiedeva alle persone cosa volessero, che tipo di richieste o di esigenze avessero.
E temo davvero che l’Ucraina possa ripetere lo stesso approccio. Le persone e i cittadini delle diverse città ucraine, così traumatizzati dalla guerra, dovrebbero invece avere un ruolo principale e decisivo nella ricostruzione. Abbiamo tutti attraversato decenni di progetti partecipativi e nelle nostre università abbiamo insegnato ai nostri studenti la necessità della partecipazione. Ma allo stesso tempo non sono sicura che abbiamo strumenti efficaci per realizzare la partecipazione, soprattutto in un contesto di guerra, distruzione, catastrofe e traumatizzazione della società.
Allo stesso tempo, possiamo già osservare alcuni errori quando l’approccio partecipativo viene trascurato. Ad esempio, a Kharkiv, da dove provengo, Norman Foster sovrintende al processo di ricostruzione, insieme ad alcune organizzazioni internazionali, come UN-Habitat. Il loro approccio è preoccupante.
Credo che sia una questione etica: e le persone dove sono? Come possiamo davvero dare alle comunità il potere di prendere decisioni in materia di architettura? All’inizio del XXI secolo, dobbiamo cambiare l’approccio adottato in altre guerre, e questo cambio deve passare attraverso il coinvolgimento delle comunità locali.
Cultura architettonica
Nella prima fase dell’invasione russa, la comunità architettonica internazionale rimase sconvolta da tutto ciò che stava accadendo. Si percepiva una forte spinta alla riflessione con la possibilità di raggiungere un nuovo livello nel dibattito su guerra e distruzione. Forse l’ultima volta che si verificò una reazione così simile fu durante la guerra in Jugoslavia. Ad esempio, Lebbeus Woods, nel suo testo Guerra e architettura, rifletteva sulle possibilità di superare le conseguenze della guerra con l’aiuto dell’architettura. È un’occasione per sviluppare il nostro pensiero collettivo come intellettuali dell’architettura. Cosa che mi aspettavo all’inizio della guerra in Ucraina.
Uno dei temi più importanti è il trauma. Credo che in futuro avremo bisogno di discussioni sul trauma e su come guarire attraverso l’architettura. Questa discussione può aiutarci anche a visualizzare possibili modalità di ricostruzione sensibili alle esperienze traumatiche delle persone e delle città.
Non si tratta solo di quante nuove case progettare e costruire, come sembrano affermare le istituzioni internazionali, le organizzazioni internazionali e chi si occupa di trovare fondi. Certamente dobbiamo dire che 100.000 persone hanno perso la casa e che dobbiamo ricostruirla. Ma nel farlo, non dobbiamo dimenticare le esperienze traumatiche che le persone hanno vissuto. Questo vissuto non è qualcosa di cui vergognarci, da nascondere o trascurare. Al contrario, dobbiamo osservare e rispettare i traumi. Chi è sopravvissuto può insegnarci a progettare le nuove forme dell’architettura.
C’è bisogno dell’estetica?
Il processo progettuale deve essere democratizzato. Chi sopravvive nelle guerre non si preoccupa tanto della forma estetica, degli stili, dei materiali, del fatto che “il diavolo è nei dettagli” e cose di questo genere. È un’utopia estetica.
Sono molto più interessati all’aspetto funzionale e utilitaristico dell’architettura. È una questione politica riuscire dare alle persone il potere di decidere qualcosa che riguarda le proprie case.
Patrimonio
Contrariamente all’opinione che durante la guerra il patrimonio non è di primaria importanza, il patrimonio è invece il fulcro della nostra discussione. In Ucraina, è una questione ancora più urgente della ricostruzione stessa perché il nostro patrimonio è minacciato e può essere distrutto in qualsiasi momento.
Il patrimonio fa parte della memoria e della cultura collettiva. La sua distruzione è parte del genocidio. Abbiamo il forte bisogno di preservarlo.
Memorie
Ci sono memorie brevi e lunghe. Quando si guardano le cose da vicino si ha una distanza molto breve, e una lettura attenta fornisce molto materiale intellettuale ed emotivo. Perché si vede tutto e si sente tutto. E c’è ancora sangue. Ricordo che durante la prima fase dell’invasione non riuscivo a indagare o a riflettere con calma sugli eventi. Non si riesce a percepire il quadro completo. Ci si trova semplicemente nel mezzo degli eventi, non si sa cosa succederà il giorno dopo.
La professione architettonica si è trovata in una sorta di trappola. Gli architetti lavorano con il futuro, progettando il domani. Gli storici dell’architettura lavorano esclusivamente con il passato. La professione architettonica, quindi, non ha i mezzi per rispondere alla realtà, al presente. Quindi dobbiamo sviluppare alcuni strumenti su come reagire alla realtà in questo momento. Altrimenti, ci troveremo in una profonda crisi della disciplina.
E gli architetti ucraini?
Sono nel mezzo di una catastrofe. Le esperienze traumatiche possono distruggerti, emotivamente, economicamente e persino politicamente.
Provengo da una famiglia di architetti, molti dei miei amici sono architetti e io stessa sono un’architetta.
Certamente, gli architetti ucraini vedono la situazione molto meglio di chiunque altro dall’esterno. Hanno tutto il potenziale, la formazione e la professionalità per offrire adeguate riflessioni e idee progettuali. Ma è ovvio che la situazione bellica non incoraggia la riflessione intellettuale, costringendo tutti a lottare per la sopravvivenza, a difendere le loro attività e a cercare appalti. Pertanto, è fondamentale coinvolgere gli architetti ucraini nei processi decisionali e di ricostruzione, offrendo loro maggiori opportunità. Niente di noi, senza di noi.
Immagine di copertina: © UN-Habitat
READ THE ARTICLE IN ORIGINAL ENGLISH
About Author
Tag
guerra , memoria , patrimonio , ricostruzione , ucraina
Last modified: 3 Maggio 2025