Commento critico alle modalità curatoriali di un’edizione della Biennale che non sembra capace di comunicare con chiarezza il messaggio
VENEZIA. La prima impressione, attraversando le Corderie dell’Arsenale, è la disconnessione tra il pensiero teorico del curatore Carlo Ratti ed il modo in cui sceglie il display espositivo.
Breve storia di una progressiva perdita di identità
Occorre fare un passo indietro al 1980 quando Paolo Portoghesi inaugura la prima Biennale di Architettura con la Strada Nuovissima. L’architetto romano sceglie un titolo evocativo, La presenza del passato, attraverso la realizzazione di un omaggio alla Strada Nova veneziana, tipico carattere urbano italiano, sulla quale si stagliano, nella loro monumentalità, una serie di facciate di case progettate come una sorta di manifesto da vari architetti. Ricordiamo tra questi Costantino Dardi, OMA, Michael Graves, Frank O. Gehry, Robert Venturi, Lèon Krier, Hans Hollein, Studio Grau e molti altri. Un progetto curatoriale chiaro, espresso perfettamente dall’allestimento che riesce a rappresentare l’idea
In che cosa Portoghesi è stato più forte di questa Biennale curata da Ratti? Nella stretta connessione tra il pensiero critico e l’allestimento, con la scelta di un’unica modalità rappresentativa, la costruzione in scala reale dei prospetti delle case.
Di Biennale in Biennale, si percepisce sempre la stessa atmosfera in cui lo spettatore deve entrare nella mente del curatore di turno per capirne i pensieri in un affastellamento di materiali diversi senza didascalie (obsolete?) e con i QR code che con il proprio smartphone si inquadrano per scoprire i progetti, generando un reale sovraccarico delle reti, alla faccia della sostenibilità.
Quando la call prevale sul manifesto
Nel mese scorso è stato firmato a Madrid, dal primo ministro spagnolo Pedro Sánchez e da Carlo Ratti, il Manifesto per il futuro dell’architettura. Tuttavia, analizzando i progetti in mostra, si rimane scettici sulla sua effettiva applicabilità, anche per il ricorso da parte di Ratti dello strumento della call per selezionare i partecipanti.
Una sorta di chiamata alle armi apparentemente democratica ma che crea solo confusione e libera l’architetto torinese dal fardello di una scelta. La maggiore densità dei progetti, rappresentati da video, plastici e fotografie non certifica una qualità architettonica e una rispondenza alla ricerca di soluzioni per adattarsi al cambiamento climatico.
Basta vedere come il tema dato da Ratti ai padiglioni sia stato sviluppato in maniera efficace dalla Spagna. Lì, con un allestimento in cui si riescono a leggere i progetti attraverso plastici sospesi a strutture aeree, emerge l’architettura e i temi connessi al riciclo dei materiali. Il tema dell’intelligenza, così come lo ha sviluppato Ratti, appare confuso soprattutto nel momento in cui si presentano una serie di progetti eclettici che mischiano intenzioni progettuali e politiche differenti.
Un’esposizione che vuole dare risposte ma che l’architettura dimostra di non poter dare, se bisogna affidarsi ai robot ed ai satelliti, dichiarando la totale dipendenza dalla scienza e dalla tecnologia a cui gli architetti soccombono senza idee.
Avevamo già assistito nel 2016, nella biennale curata da Alejandro Aravena, alla scrittura di un manifesto politico dell’architettura, in cui i temi sociali erano posti al centro del dibattito ma con una forza e una coerenza molto diversa dalla Biennale attuale.
Architetti, siete troppo artisti
Appare ancora una volta evidente lo scarto tra l’architettura e l’arte, sia nell’uso dei media (i video e le fotografie), sia nella definizione delle installazioni site specific. Gli architetti continuano a imitare gli artisti in un campo a loro sconosciuto con risultati mediocri. Non si comprende cosa spinga queste pratiche che appartengono alle Biennali di arte e che creano un disorientamento nella comprensione dei progetti.
Sebbene il tema espositivo sia di attualità, non si riscontra nelle opere presentate una coerenza con i temi ambientali. Non c’è evoluzione dei temi se ci ritroviamo ancora a ghettizzare certi approcci demagogici nelle aree povere del mondo, come se in Europa o in America non fosse possibile cambiare abitudini costruttive e porre un freno reale alle conseguenze del cambiamento climatico.
Così, percorrendo le navate laterali, la densità è tale che non aiuta a leggere i progetti con la giusta distanza fisica. Mentre nello spazio centrale si assiste ad un efficace catalogo di tipologie di coperture costruite in scala 1:1, come una serie di prototipi, intervallati da robot umanoidi che dialogano con gli spettatori. Tuttavia questa infatuazione tecnologica, priva di connessione con l’architettura costruita, era nota fin dalla proclamazione di Ratti come curatore della Biennale, determinandone un forte limite evidente anche nei suoi progetti architettonici. La tecnologia non risolverà mai nulla in autonomia se non è mediata dalla creatività dell’architetto.
Lo aveva dimostrato Richard Buckminster Fuller, innovatore e sperimentatore che ha anticipato molte delle questioni contemporanee, o Vittorio Giorgini e i suoi studi sulla biologia, figure ignorate dalla Biennale. La chiusura del Padiglione Centrale ai Giardini per ristrutturazione poteva fare presagire che l’allestimento all’Arsenale diventasse la sintesi del pensiero rattiano, così non è stato. La causa va ricercata proprio nel display adottato, mettendo in evidenza, ancora una volta, quanto i progettisti, tranne rari casi, siano poco adatti a trasformarsi, in maniera estemporanea, in curatori.
Immagine copertina: Corderie, 19° Biennale di Architettura, Venezia, 2025 (© Emanuele Piccardo)
About Author
Tag
allestimento , Biennale , Biennale Architettura 2025 , Carlo Ratti , Intelligens , mostre , venezia
Last modified: 9 Maggio 2025