Itinerario ironico e disincantato lungo le Corderie dell’Arsenale. Tra pali composti e scritte che non si leggono
VENEZIA. Se i grandi pilastri e i muri delle Corderie dell’Arsenale parlassero, di quanti allestimenti potrebbero raccontarci in questi quasi cinquant’anni di Biennale messi in scena sotto i loro muti sguardi? Innumerevoli, indubbiamente, e potrebbero anche darci dettagli su come, in fondo, tutte le strade siano state esperite, messe alla prova, sondate e giudicate dal pubblico.
All’inizio il buio
Eppure, ogni volta, sembra si debba ricominciare da capo, ignari del passato, ma sicuri di aver trovato la soluzione giusta. Così, in questa Biennale delle genti al tempo dell’adattamento, si apre una nuova pagina nella quale alcune piccole convinzioni di base, faticosamente conquistate in lunghi anni – come quella che si allestisce per meglio esporre ed efficacemente comunicare i concetti o che si realizza un progetto grafico per meglio leggere i testi – vengono duramente messe alla prova.
Ma non perdiamoci d’animo e iniziamo la nostra visita all’Arsenale, quest’anno unico luogo di espressione del pensiero del main curator Carlo Ratti, essendo il Padiglione Centrale dei Giardini chiuso per ristrutturazione, pesante a quanto ci è stato dato modo di vedere sbirciando, da bravi umarell di laguna, dalle cesate di cantiere. Se “l’architettura è sempre stata una risposta al clima”, come si legge nello statement di apertura, allora l’approccio non può che essere esperienziale.
Così, svoltati dal vestibolo fittamente scritto con una grafica millimetrata, ci si infila in uno spazio caldo e buio (a opera di Pistolletto/Cittadellarte). Se non ci si scontra subito con lo spigolo di una delle ampie vasche colme di liquido nero che coprono la superficie, si inizia a respirare un’aria umida e calda che proviene da una teoria di motori di condizionatori che pencolano dal soffitto. L’atmosfera è un poco da Blade Runner de noantri, ma lo scopo è raggiunto, tanto il disagio è tale da farti guadagnare in fretta l’uscita, fatti i due scatti di rito col telefonino.
(Dover) riempire lo spazio
L’idea che questa Biennale sarà fatta di colpi di teatro viene confermata dalla cavea che ti accoglie nella sala successiva, dispiegandosi distesa su una struttura tubo e giunto (vera koinè espressiva quest’anno, il sistema tubo e giunto costituisce, ad esempio, la doppia spina che attraversa il padiglione italiano, ahimè sempre troppo grande per le idee che vi si vogliono esprimere) che non capisci bene, tanto che ti affretti a cercare il doveroso pannello esplicativo per provare ad intendere.
E qui inizi ad essere messo alla prova sia dalla lunghezza dei testi, eccessiva, sia dall’altezza dei corpi tipografici scelti, da prova oculistica per il rinnovo della patente, sia dalla posizione, che arriva così in basso da costringerti al piegamento che, comunque, fa bene alla salute. Però, un paragrafetto realizzato dall’IA in corpo più alto ti dà il riassunto del tutto, non si sa se per agevolarti, se vai di fretta, o per dimostrare che si poteva dire la stessa cosa in molte meno battute.
Quello che non ti aspetti è che, invece, il registro di forte impatto scenografico venga subito abbandonato per far posto ad un uso intensivo dello spazio che, ci ricordano pilastri e muri, qui non si era mai visto. Come è stato notato, adattamento in questa Biennale fa rima con accumulazione e, per questo motivo, lo scopo è far stare quante più cose possibili in questo spazio, come se, per non sbagliare, si cercasse di mettere tutto e di più.
Quando noi bambini boomer, felici perché inconsapevoli di essere espressione di un’umanità che si copriva di delitti efferati, ci mettevamo a giocare nella nostra cameretta rovesciavamo tutte le scatole di giochi sul pavimento e tentavamo, da una parte, di decidere a che gioco giocare, impossibile, e, dall’altra, di capire se si potesse inventare un nuovo gioco da quelli esistenti, mera chimera proveniente dall’idea di progresso della quale eravamo vittime. Ci immaginiamo lo sforzo al quale sono stati chiamati i progettisti dell’allestimento, ai quali va tutta la nostra stima, quando hanno iniziato a fare i conti con il numero degli oggetti/installazioni da esporre e i metri quadrati a disposizione (lo studio berlinese Sub per l’allestimento, gli svizzeri Bänziger Hug Kasper Florio per la grafica).
Non potendo pensare ad una qualche articolazione degli spazi, l’idea, giusta e brillante, è stata quella di provare a segnare ogni singola presenza con un artefatto, a metà fra la segnaletica e il totem, che si ponesse come un picchetto infilzato nel suolo a testimoniare la posizione presa.
La poetica del palo
L’artefatto è, in verità, un autopole cielo terra di vecchia memoria, qui portato a grande scala e collocato a reggere ampi pannelli di ricchissima grafica, come già descritti. Il palo, ci sia concesso il temine sbrigativo, è profilo composto declinato in vari materiali che cambiano a seconda della sezione nella quale si trovano. Il profilo composto è citazione del Movimento Moderno, potremmo scomodare i pilastrini di Mies van der Rohe a Barcellona, o quelli abilmente fatti diventare sistema allestitivo da Franco Albini e Franca Helg in tanti progetti, ma qui danno vita ad una tassonomia del tutto nuova, super sperimentale, ma forse troppo fine a sé stessa.
Eppure, l’utilizzo di materiali duri da costruzione può dare luogo a spazi poetici, si veda la presenza del Bahrein dove un basso grigliato sospeso sulle nostre teste ci dona uno spazio nel quale meglio capiamo la tecnologia passiva che questa volta ci rinfresca, non punendoci, ma donandoci sollievo. Nelle Corderie l’incedere è faticoso, la via dell’uscita va guadagnata slalomando fra quelli che, a ben vedere, sono come stand collocati in una fiera dove non c’è differenza fra percorsi e spazi espositivi, ma tutto viene messo insieme in modo da restituire la confusa complessità, spesso innecessaria complicazione, che, forse a ragione, è lo specchio dei nostri tempi.
Un formicaio fuori scala
Forse qui sta la dote migliore di questa Biennale, nel descrivere il mondo di oggi. In questo formicaio fuori scala la Natura non è benigna e gli allestimenti sono pieni di incrostazioni, pietre fumanti, mentre il mondo vegetale è tecnologizzato e tecnologizzante, dominato da robot e affini.
La luce è sempre artificiale, i suoni sono rumori sordi e indistinto brusio tecnologico in un clima mediamente confuso e ricco di accumulatio (latino tardo vs latino fantasioso di intelli-gens). Hai l’impressione che qualcosa di fisico o di digitale (orrendamente sviluppato) ti possa aggredire e ti trovi a pensare: possiamo progettare un edificio intelligente quanto un albero? E poi, soprattutto: la complessità è accumulazione? Si accumula per non dimenticare niente? O almeno sperare di non farlo? Si accumula per avere sicurezza? Si accumula per nevrosi?
Mentre ci poniamo questi quesiti siamo superati da un bambino con le scarpe dalle suole luccicanti ad intermittenza e siamo, quindi, colti dal sospetto che sia lui a meglio aver capito ed interpretato il mood della mostra. Come ci si sente alla fine di un viaggio scuro e monocromo concettualmente? Un po’ come succedeva a noi bambini di un tempo: si abbandonavano i giochi sul pavimento, irrimediabilmente confusi e rotti, e si usciva a giocare a palla in cortile, sicuri che qualcuno ce l’avrebbe presto sequestrata, rei di aver disturbato la signora del terzo piano.
Immagine copertina: Intelligens, The Other Side of the Hill, 19° Biennale di Architettura, Venezia, 2025 (© Alessandro Colombo)
About Author
Tag
allestimento , Biennale , Biennale Architettura 2025 , Carlo Ratti , Intelligens , mostre , venezia
Last modified: 9 Maggio 2025