Antologia di pensieri e scritti di Jorge Maria Bergoglio su città, architettura, cura dell’ambiente e dei luoghi. Un percorso lungo i 12 anni di pontificato
Se il rapporto tra la crescita urbana, la disciplina urbanistica e la pastorale parrocchiale hanno segnato un’importante stagione della storia della Chiesa del Novecento – ossia quella della Ricostruzione e del boom degli anni Sessanta (come documentato e discusso dall’ultimo fascicolo di HPA, appena pubblicato) – la dimensione globale dei fenomeni urbani entra nel magistero papale solo con il pontificato di Jorge Bergoglio, la cui esperienza cristiana si è formata e sviluppata nelle metropoli latinoamericane.
Fin dagli inizi del suo mandato papa Francesco ha portato alla ribalta planetaria il tema della vita urbana e della pervasività antropologica e teologica dell’urbanesimo globale. La questione del nuovo millennio non è più dunque l’infrastrutturazione cristiana dei nuovi quartieri, con nuove chiese e nuovi complessi parrocchiali, ma far diventare la vita urbana nel suo insieme il quadro della vita cristiana, dei singoli e delle comunità.
Anzi, la città come luogo privilegiato dell’esperienza di fede.
Un immaginario teologico cristiano per le città
L’assunto di fondo è la necessità di cogliere – nonostante le evidenti criticità ambientali e sociali – la ricchezza della vita urbana, sviluppandone gli aspetti positivi, e tentando di operare per affrontare quelli negativi, “perché lo sguardo della fede scopre e crea la città” (Jorge Maria Bergoglio, Dio nella città, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2013, pagina 7).
Senza rimpianti verso una visione anti-urbana dell’ideale di vita cristiana, “Dio vive nella città, e la Chiesa vive nella città. La missione non si oppone al dover imparare dalla città – dalle sue culture e dai suoi cambiamenti – proprio mentre usciamo a predicarle il vangelo. […] Non è solo la città moderna ad essere una sfida, ma lo sono state, lo sono e lo saranno ogni città, ogni cultura, ogni mentalità e cuore umano” (stesso volume, pagina 42). E dunque “il nostro Dio, che vive nella città e si coinvolge nella sua vita quotidiana, non discrimina né relativizza […]; il fatto di non discriminare e di non relativizzare implica la forza di accompagnare dei processi e la pazienza del fermento che aiuta a crescere” (stesso volume, pagina 47).
Il retroterra del pensiero teologico di Francesco sulla città deriva da un documento fondativo, alla cui formulazione lui stesso aveva contribuito in maniera sostanziale, ossia il Documento di Aparecida conclusivo della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi (CELAM) del maggio 2007, in particolare dal punto 514, ossia La fede ci insegna che Dio vive nella città: “Le ombre che segnano la quotidianità delle città, la violenza, la povertà, l’individualismo, l’esclusione, non possono impedirci di cercare e di contemplare il Dio della vita anche negli ambienti urbani. Le città sono luoghi di libertà e di opportunità. In esse le persone hanno la possibilità di conoscere altre persone, di interagire e di convivere con esse. Nelle città è possibile sperimentare vincoli di fraternità, solidarietà e universalità. In esse l’essere umano è chiamato a camminare sempre più incontro all’altro, a convivere con il diverso, ad accettarlo ed essere accettato da lui”.
Tre sono le categorie che Aparecida proponeva per un “Immaginario teologico cristiano per le città”, immaginario che diventa lievito sociale: incontro, accompagnamento e fermento, in quanto “essere popolo e costruire città vanno di pari passo; e così pure essere popolo di Dio e abitare nella città di Dio”.
Il tema delle periferie – intese come metafora, ma anche come questione abitativa e insediativa – emerge fin dall’intervento di Bergoglio nelle congregazioni pre-conclave, quelle in cui si definiscono le linee della campagna elettorale dei candidati al soglio di Pietro.
Del resto, era sul tema della “unzione” delle periferie una delle ultime omelie scritte per la sua diocesi, Buenos Aires, prima della partenza per il conclave. In occasione dell’omelia al suo clero per la messa crismale, annotava: “È là che bisogna andare a sperimentare la nostra unzione, la sua potenza e la sua efficacia redentrice: nelle periferie dove c’è sangue sparso, cecità desiderosa di vedere, prigionieri di tanti padroni cattivi. Non è affatto nelle auto-esperienze o nelle reiterate introspezioni che incontreremo il Signore: nella vita qualche corso di autoaiuto male non fa, ma passare di corso in corso, di metodo in metodo, ci porta a diventare pelagiani, a minimizzare la potenza della grazia che si attiva e cresce nella misura in cui usciamo a darci e a dare il Vangelo agli altri; a dare quel poco di unzione che abbiamo a chi non ha niente di niente”.
È quindi con l’inizio del pontificato di Francesco che l’analisi di Aparecida esce finalmente dall’ambito latinoamericano.
L’omelia al Madison Square Garden di New York, il 25 settembre 2015, è l’occasione in cui viene proposta anche alle città mondiali del nord una teologia cristiana dell’urbanesimo. “Vivere in una città è qualcosa di piuttosto complesso: un contesto multiculturale con grandi sfide non facili da risolvere. Le grandi città ci ricordano la ricchezza nascosta nel nostro mondo: la varietà di culture, tradizioni e storie. La varietà di lingue, di vestiti, di cibi. Le grandi città diventano poli che sembrano presentare la pluralità dei modi che noi esseri umani abbiamo trovato di rispondere al senso della vita nelle circostanze in cui ci trovavamo. A loro volta, le grandi città nascondono il volto di tanti che sembrano non avere cittadinanza o essere cittadini di seconda categoria. Nelle grandi città, nel rumore del traffico, nel ‘ritmo dei cambiamenti’, rimangono coperte le voci di tanti volti che non hanno ‘diritto’ alla cittadinanza, non hanno diritto a far parte della città – gli stranieri, i loro figli (e non solo) che non ottengono la scolarizzazione, le persone prive di assistenza medica, i senzatetto, gli anziani soli – confinati ai bordi delle nostre strade, nei nostri marciapiedi in un anonimato assordante. Ed entrano a far parte di un paesaggio urbano che lentamente diventa naturale davanti ai nostri occhi e specialmente nel nostro cuore”.
Cionondimeno, “Dio vive nelle nostre città, la Chiesa vive nelle nostre città. E Dio e la Chiesa che vivono nelle nostre città vogliono essere fermento nella massa, vogliono mescolarsi con tutti, accompagnando tutti, annunciando le meraviglie di Colui che è Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace”.
Saper riconoscere la città
Ora, a pontificato concluso, potrà essere sviluppata un’analisi critica più dettagliata del pensiero urbano di Francesco espresso nel suo Magistero. Limitiamoci ad alcuni appunti preliminari.
Fin dall’esortazione apostolica Evangelii Gaudium del 24 novembre 2013 (rilettura conclusiva della XIII Assemblea Generale Ordinaria dei vescovi del 2012, che precedeva il suo pontificato), Francesco evidenzia che “abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. […] Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata” (n. 71).
La lunga analisi che segue sfocia in una prima tensione progettuale: “Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!” (n. 210).
Ecologia della vita quotidiana e progetto urbano
Il tema urbano diventa protagonista nella lettera Enciclica Laudato si sulla cura della casa comune, 24 maggio 2015.
Alcuni spunti di analisi urbana: “Oggi riscontriamo, per esempio, la smisurata e disordinata crescita di molte città che sono diventate invivibili dal punto di vista della salute, non solo per l’inquinamento originato dalle emissioni tossiche, ma anche per il caos urbano, i problemi di trasporto e l’inquinamento visivo e acustico. Molte città sono grandi strutture inefficienti che consumano in eccesso acqua ed energia. Ci sono quartieri che, sebbene siano stati costruiti di recente, sono congestionati e disordinati, senza spazi verdi sufficienti. Non si addice ad abitanti di questo pianeta vivere sempre più sommersi da cemento, asfalto, vetro e metalli, privati del contatto fisico con la natura. In alcuni luoghi, rurali e urbani, la privatizzazione degli spazi ha reso difficile l’accesso dei cittadini a zone di particolare bellezza; altrove si sono creati quartieri residenziali “ecologici” solo a disposizione di pochi, dove si fa in modo di evitare che altri entrino a disturbare una tranquillità artificiale. Spesso si trova una città bella e piena di spazi verdi ben curati in alcune aree “sicure”, ma non altrettanto in zone meno visibili, dove vivono gli scartati della società” (nn. 44-45).
Nel quadro del concetto di “ecologia integrale”, emerge anche il tema del patrimonio urbano, fino a quel punto trascurato dal pensiero di Bergoglio: “Insieme al patrimonio naturale, vi è un patrimonio storico, artistico e culturale, ugualmente minacciato. È parte dell’identità comune di un luogo e base per costruire una città abitabile. Non si tratta di distruggere e di creare nuove città ipoteticamente più ecologiche, dove non sempre risulta desiderabile vivere. Bisogna integrare la storia, la cultura e l’architettura di un determinato luogo, salvaguardandone l’identità originale. Perciò l’ecologia richiede anche la cura delle ricchezze culturali dell’umanità nel loro significato più ampio. In modo più diretto, chiede di prestare attenzione alle culture locali nel momento in cui si analizzano questioni legate all’ambiente, facendo dialogare il linguaggio tecnico-scientifico con il linguaggio popolare. È la cultura non solo intesa come i monumenti del passato, ma specialmente nel suo senso vivo, dinamico e partecipativo, che non si può escludere nel momento in cui si ripensa la relazione dell’essere umano con l’ambiente” (n. 143).
Nell’ecologia integrale trova spazio anche la “ecologia della vita quotidiana”, che si riflette nella cura dei luoghi: “A volte è encomiabile l’ecologia umana che riescono a sviluppare i poveri in mezzo a tante limitazioni. La sensazione di soffocamento prodotta dalle agglomerazioni residenziali e dagli spazi ad alta densità abitativa viene contrastata se si sviluppano relazioni umane di vicinanza e calore, se si creano comunità, se i limiti ambientali sono compensati nell’interiorità di ciascuna persona, che si sente inserita in una rete di comunione e di appartenenza. In tal modo, qualsiasi luogo smette di essere un inferno e diventa il contesto di una vita degna” (n. 148).
Ma soprattutto colpisce la centralità attribuita al progetto urbano e alla pianificazione urbanistica: “Data l’interrelazione tra gli spazi urbani e il comportamento umano, coloro che progettano edifici, quartieri, spazi pubblici e città, hanno bisogno del contributo di diverse discipline che permettano di comprendere i processi, il simbolismo e i comportamenti delle persone. Non basta la ricerca della bellezza nel progetto, perché ha ancora più valore servire un altro tipo di bellezza: la qualità della vita delle persone, la loro armonia con l’ambiente, l’incontro e l’aiuto reciproco. Anche per questo è tanto importante che il punto di vista degli abitanti del luogo contribuisca sempre all’analisi della pianificazione urbanistica. È necessario curare gli spazi pubblici, i quadri prospettici e i punti di riferimento urbani che accrescono il nostro senso di appartenenza, la nostra sensazione di radicamento, il nostro ‘sentirci a casa’ all’interno della città che ci contiene e ci unisce. È importante che le diverse parti di una città siano ben integrate e che gli abitanti possano avere una visione d’insieme invece di rinchiudersi in un quartiere, rinunciando a vivere la città intera come uno spazio proprio condiviso con gli altri. Ogni intervento nel paesaggio urbano o rurale dovrebbe considerare come i diversi elementi del luogo formino un tutto che è percepito dagli abitanti come un quadro coerente con la sua ricchezza di significati” (nn. 150-151).
La bellezza della fragilità
Un ultimo appunto, questa volta sul tema dei centri storici, si deduce dal motu proprioLa vera bellezza sulla ripartizione del territorio della diocesi di Roma, del 1 ottobre 2024. Il tema avrebbe potuto essere trattato da un punto di vista meramente burocratico: la questione è infatti l’uso delle chiese ridondanti e a rischio di abbandono nel centro di Roma, ormai spopolato da residenti, al tempo stesso gentrificato e impoverito, e colpito da overtourism.
L’occasione è propizia per una riflessione sulla storia e sulla vulnerabilità: “La prima nota da indicare nella classifica delle bellezze che compongono Roma sul versante cristiano e diocesano è la sua vocazione materna ad accogliere e a nutrire. Tutta la città, e non solo il centro storico, è manifestazione della concreta maternità della Chiesa che accoglie nel miglior modo possibile i suoi figli, pellegrini da ogni dove. Una madre è bella perché dedita alla cura dei suoi figli e ha occhi speciali per i figli più fragili che la rendono ancora più bella. La fragilità è un’altra manifestazione della bellezza che ci impone attenzione. Più ci prendiamo cura delle fragilità e più risultiamo belli”.
Troviamo forse una risposta che non è solita darsi alla domanda (L’idiota, Fëdor Dostoevskij) di Ippolit al principe Miškin: “Quale bellezza salverà il mondo?”. La bellezza della vulnerabilità.
Immagine copertina: 27 marzo 2020, Preghiera di Papa Francesco in Piazza San Pietro con Benedizione Urbi et Orbi (da vaticannews.va)
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città , obituary , Papa Francesco , periferie , urbanesimo
Last modified: 23 Aprile 2025