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Michela MorganteWritten by: Forum Patrimonio

Tirana e la demolizione del teatro della discordia

Tirana e la demolizione del teatro della discordia

La controversa vicenda del Teatro nazionale albanese: tra picconatori, conservatori e un passato non metabolizzato

 

TIRANA. L’abbattimento dello storico Teatro nazionale, da lungo tempo previsto e attuato repentinamente all’alba del 17 maggio approfittando dell’emergenza Covid-19, ha suscitato sconcerto e riprovazione nel mondo della cultura internazionale. Un edificio inserito in un complesso polifunzionale, il Circolo italo-albanese Skanderbeg, progettato nel 1938 da un oscuro funzionario tecnico degli Affari esteri italiani, in forme blandamente moderniste. Il gusto – diversamente da quanto accreditato da recenti ricognizioni storiografiche su un presunto razionalismo d’Albania e, a ruota, diffuso acriticamente dai media – appare a metà strada tra Giovanni Muzio e una scomposizione volumetrica quasi Déco. Le tecniche costruttive sono quelle della prefabbricazione autarchica: struttura mista in cemento, legno e Populit – l’agglomerato coibentante sperimentato dagli italiani nelle Terre d’Oltremare in vista di una rapida (e scenografica) urbanizzazione delle colonie. Per i ricercatori del Politecnico di Bari, tali scelte strutturali ne accrescevano il valore di documento; per le autorità albanesi ne hanno decretato l’inaffidabilità statica, da sommarsi alla presenza di amianto e alla mancanza dei requisiti normativi per i luoghi di spettacolo. Ma il fascicolo era aperto almeno dal 2003, con la previsione di demolire il teatro già dalla prima tornata di concorso per il nuovo piano regolatore. L’ulteriore definitivo passo verso la cancellazione è stato l’incarico, nel 2018, allo studio danese di Bjarke Ingels per un nuovo sviluppo ad usi misti comprensivo di teatro. Tanto che lo spazio – da due anni ufficialmente chiuso – ha continuato a funzionare “informalmente” grazie al presidio del collettivo Alleanz, i cui membri negli scorsi giorni abbiamo visto comparire sui media, malmenati e arrestati la notte del blitz.

L’annunciato smantellamento del teatro è probabilmente frutto dell’intreccio tra interessi privati e gangli di un potere scarsamente democratico, riconducibili all’istrionico primo ministro Edi Rama. La febbrile rincorsa al rinnovamento post-comunista della capitale, la politica della tabula rasa, hanno riplasmato da tempo la fisionomia di Tirana con il coinvolgimento di molte firme internazionali, alcune delle quali italiane. Come già segnalato anche su queste pagine, la cancellazione del teatro è il nuovo capitolo di una serie inaugurata nel 2011 con la rimozione del giardino ribassato di piazza Skanderbeg (1935, medesimo progettista, Giulio Berté), continuata nel 2016 con l’abbattimento dello stadio firmato da Gherardo Bosio (1939-41). Attacchi susseguitisi – è stato scritto enfaticamente altrove – al “cuore italiano” di Tirana. La capitale era stata in effetti fascistizzata dal 1925, sulla base di un progetto impostato da Armando Brasini in toni neo-barocchi, un asse monumentale nord-sud con affacciate le maggiori sedi istituzionali; altrettante commesse di regime. Il giudizio sulla campagna di demolizioni non può dunque prescindere dal fatto che tali costruzioni sono inequivocabili testimonianze di un dominio straniero imposto dal 1939 e preparato da oltre un decennio di colonizzazione culturale. Sono retaggi pesanti di un passato di dominazione, a tratti anche brutale nei confronti della comunità albanese, sul cui destino manca una discussione qualificata e condivisa. Questa grande rimozione collettiva getta dunque un’ombra su entrambi gli schieramenti (i picconatori come gli attivisti pro-conservazione), impedendo di trovare una via d’uscita dalla contrapposizione forzata. D’altra parte l’amicizia italo-albanese, recentemente rinnovata dalla propaganda di Rama sull’emergenza sanitaria, appare un valore non discutibile, sia per ragioni commerciali, sia per il supporto fondamentale offerto dal nostro Paese all’ingresso dell’Albania in Europa. Processo da poco – a sorpresa – riaperto. Sarà forse illusorio pensare che la denuncia lanciata da Europa Nostra ai ministri della cultura europei contro la demolizione del teatro possa modificare tali equilibri. Tuttavia, l’appello rivolto dalla Ong vicina all’Unesco ha correttamente richiamato agli stati membri come la memoria storica sia uno dei valori fondanti l’Unione europea.

Restano diversi punti interrogativi sulla vicenda, al netto dell’arbitrio e dell’arroganza dimostrata da decisori che per procedere hanno dovuto ricorrere ad una legge speciale, cancellare il vincolo di tutela, bypassare i dubbi della Corte costituzionale, attuare un fulmineo cambio di proprietà dal demanio al Comune. Quanto all’identificazione simbolica della comunità locale con l’edificio, emersa in tutta la sua evidenza, ignorarla non è mai una buona mossa politica, come hanno insegnato le esperienze del teatro Valle a Roma e del Filangeri a Napoli. E tuttavia l’appello, lanciato da alcuni architetti albanesi, di ricostruire il vecchio teatro dov’era e com’era lascia altrettanto perplessi. Innanzitutto per la qualità non memorabile dell’edificio, peraltro realizzato in parziale difformità dal disegno originario (in mancanza del portico previsto in facciata, resta la duplicazione un po’ banale delle testate gemelle) e poi ripetutamente modificato nel secondo dopoguerra.

La battaglia per la conservazione si presentava sicuramente come un’opzione minoritaria, stanti i valori immobiliari esorbitanti delle aree centrali e le pressioni politiche e di mercato per una radicale rifunzionalizzazione dell’area. Impossibile di certo senza una ridiscussione delle posizioni nei due schieramenti, che forse avrebbe consentito l’individuazione di soluzioni terze, più complesse e interessanti. Per esempio rimodulando gli obiettivi di conservazione in una forma museale attualizzata (un centro d’interpretazione?), sulla scia delle molte esperienze allestitive attuate principalmente all’estero, su scenari di eventi dolorosi o divisivi (ex carceri, ospedali psichiatrici, luoghi simbolo dell’emigrazione). Perché queste sono le nuove mete del turismo culturale. Ambiti di rilettura critica, dove l’esperienza spaziale è accompagnata didatticamente, i simboli iconografici più controversi depotenziati. Così almeno è stato fatto a Bolzano con il Monumento alla Vittoria, uscendo da un dibattito di oltre un quarantennio lanciato dall’etnia tedesca, grazie all’intelligente operazione conclusa nel 2014.

Autore

  • Michela Morgante

    Architetta, dottore di ricerca in Urbanistica, si occupa di storia urbana contemporanea. Ha insegnato “Storia della città e del territorio” e “Storia del paesaggio italiano” presso Conservazione dei Beni Culturali a Ravenna. Tra i temi indagati, in saggi su riviste e monografie: la tutela storico-artistica nella pianificazione delle città italiane tra Otto e Novecento, le dinamiche edilizie della ricostruzione post-bellica, l’infrastrutturazione del territorio per il governo delle acque, le politiche territoriali di area vasta. Le pubblicazioni più recenti riguardano la rappresentazione delle città d’arte italiane bombardate durante la Seconda guerra mondiale, in chiave di propaganda. Collabora con "Il Giornale dell'Architettura" dal 2004

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Last modified: 27 Maggio 2020