Super qualificati, ma trattati come addetti alle pulizie: i risultati dell’inchiesta del movimento “Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali” sul mondo del lavoro nel settore
Il 30 ottobre 2019 il movimento “Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali” ha presentato alla Camera dei Deputati i risultati dell’inchiesta sulle condizioni di lavoro nel settore culturale, a cui hanno partecipato 1.546 professionisti. Dall’inchiesta, insieme all’altra sulle discriminazioni di genere, è scaturito un tour d’incontri in tutta Italia, intitolato “Il lato oscuro dei beni culturali – Resistere a trent’anni di esternalizzazioni e lavoro gratuito”.
I dati, che finora non erano stati quantificati in modo statistico, configurano un quadro cupo per chi lavora nei beni culturali, un settore afflitto da paghe misere, con l’80% delle risposte che denuncia salari annui che raggiungono, al massimo, i 15.000 euro, mentre il 34% guadagna tra 4 e 8 euro l’ora, e addirittura l’11,4% lavora per meno di 4 euro l’ora; multi-lavoro, straordinari non contrattuali e spesso non pagati (il 66% dei lavoratori sono precari); alta formazione ma scarse tutele. A fronte di questo quadro allarmante, tre le specifiche richieste avanzate da “Mi riconosci?”: una norma che limiti il volontariato; un nuovo regolamento che riveda i criteri di appalto ed esternalizzazione; l’applicabilità del giusto contratto nazionale per i lavoratori del settore dei beni culturali.
Nel dettaglio emerge, dicevamo, un quadro di professionisti super qualificati: il 56% del campione ha una laurea specialistica o magistrale, il 17% una laurea triennale, il 15% ha un diploma presso una scuola di specializzazione, l’8% un dottorato di ricerca, il 3% un titolo post lauream, mentre l’1% un diploma di un istituto AFAM (Alta formazione artistica e musicale). Quanto al luogo di lavoro: per il 29,33% è il museo, il 15,94% la biblioteca, il 15,7% lavora presso entri privati (fondazioni, cooperative, associazioni, ecc.), l’11,84% in cantiere, il 5,37% in archivio, il 4,74% presso altri enti pubblici, il 4,55% in un parco archeologico, il 3,64% all’università, il 2,28% a teatro, l’1,73% presso una soprintendenza, l’1,46% a scuola, l’1,46% presso uno spazio espositivo, l’1% in una galleria d’arte, lo 0,27% presso un parco naturale, lo 0,82% presso altre sedi. Degli intervistati, il 28% ha riferito di lavorare in più luoghi di lavoro contemporaneamente. Il datore di lavoro nel 33,58% è una cooperativa, nel 23,74% un ente privato di altra natura, nel 23,30% un ente pubblico (università comprese), nel 13,98% si tratta di enti misti, nel 5,18% di fondazioni onlus o no profit, altri datori per lo 0,22%.
Nel 75% dei casi i lavoratori hanno un contratto. Lavora a tempo indeterminato il 34,17% degli intervistati. Tutti gli altri hanno contratti a termine o di diversa natura: contratti a tempo indeterminato per il 22,26%, a chiamata per il 10,56%, co.co.co. per il 9,04%, a progetto il 6,70%, il 6,17% è in servizio civile, stage per il 5,65%, borsa di ricerca per il 2,35%, apprendistato per l’1,48%, interinale o in somministrazione l’1,22%. Chi non ha un contratto (il 25% del campione) è stato obbligato ad aprirsi una partita IVA (per il 78% degli intervistati).
Passiamo, dunque, alla giungla dei contratti di lavoro, dove il più applicato risulta quello Multiservizi: lavoratori altamente specializzati con un trattamento economico e contrattuale che li equipara agli addetti alle pulizie. Anzi nemmeno, dato che nella metà dei casi gli intervistati hanno dichiarato di guadagnare meno di 8 euro l’ora. Tra i meno applicati, solo nel 7% dei casi, risulta, invece, proprio lo specifico contratto nazionale per chi lavora nel settore siglato nel 1999 da Federculture.
E arriviamo al vero e proprio scandalo delle retribuzioni: la maggioranza, il 62%, guadagna meno di 12 euro l’ora, il 45% meno di 8 euro. I guadagni annui sono da fame: l’80% percepisce meno di 15.000 euro. Dichiara tra i 15 e i 20.000 euro l’11% degli intervistati, tra i 20 e i 30.000 euro l’8%, tra i 30 e i 40.000 euro l’1%. Paghe orarie migliori riesce a racimolare chi somma committenti di diversa natura. Tra le denunce più forti quella dello sfruttamento da parte di pubbliche amministrazioni e cooperative di manodopera a bassissimo costo, con paghe anche inferiori a 4 euro l’ora. Le più alte disuguaglianze in assoluto, invece, si registrano tra chi lavora per fondazioni o no profit, con lavoratori pagati meno di 4 euro l’ora a fianco di chi invece ne percepisce anche tra i 40 e i 50.
In un Paese insensibile alla meritocrazia non stupisce, poi, che dall’inchiesta emerga che i titoli di studio non siano una garanzia di paghe migliori. Solo il 40% dichiara che il proprio titolo professionale e le proprie competenze corrispondono alle mansioni svolte. Altro dato dello sfruttamento, solo il 59% dichiara di aver lavorato per un monte ore corrispondente a quello per cui si è ricevuta la paga.
In definitiva, un’inchiesta indispensabile dalla quale non può prescindere chi si occupa di politiche culturali.
Immagine di copertina: archeologi, archivisti, bibliotecari, storici dell’arte, demoetnoantropologi, restauratori, operatori museali e turistici e artisti in piazza del Pantheon a Roma nel 2014 per chiedere “più tutele a chi tutela”; si trattava della prima manifestazione nazionale dei professionisti dei beni culturali
Chi sono gli artefici dell’inchiesta
“Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali” è un movimento di professionisti del settore culturale e studenti, attivo dal novembre 2015 per parlare di patrimonio culturale e lavoro. Costituitosi come piccolo gruppo tematico, in pochi mesi ha ampliato il proprio orizzonte arrivando a coinvolgere nel dibattito pubblico professionisti di tutte le provenienze ed ambiti della cultura: restauratori, guide turistiche, archeologi, archivisti, antropologi, biblioteconomisti, antropologi fisici, paleontologi, storici dell’arte, diagnostici, architetti, attori, cantanti, ballerini e tantissimi altri. Da qui il nome che punta l’attenzione sul tema del riconoscimento professionale, inteso come ruolo dei professionisti, già da tempo marginalizzati, rivendicando nuove leggi a sostegno delle professioni, ma anche come riconoscimento economico, denunciando situazioni di sfruttamento ed esclusione dei professionisti per risparmiare sul costo del lavoro. La differenza l’ha fatta un’intuizione, che ha reso il gruppo sin da subito più forte: il doversi considerare una sola unica grande categoria professionale e condurre tutte le battaglie insieme. In passato infatti tutte le grandi associazioni di categoria, le varie comunità di professionisti e spesso anche gruppi di studenti avevano in vari momenti avanzato richieste al Mibact, senza ottenere però il giusto ascolto. In quattro anni hanno così avanzato diverse proposte per la regolamentazione delle professioni, una proposta di legge per la regolamentazione del volontariato, un patto tra lavoratori e datori per il lavoro culturale e organizzato tantissimi incontri in tutta Italia e alcune manifestazioni nazionali.
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beni culturali
Last modified: 9 Dicembre 2019
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