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Carla MolinariWritten by: , Progetti

À Table, l’archeologia architettonica di Lina Ghotmeh a Londra

Visita al Serpentine Pavilion 2023 a Hyde Park, un manifesto che riflette sulla realtà contemporanea e le sue contraddizioni

 

LONDRA. “Noi conformiamo i nostri edifici, e poi essi plasmano noi stessi“, affermava Winston Churchill. E ancora una volta, quest’anno, nei prati di Kensington Gardens a Hyde Park, sorge il Serpentine Pavilion, accompagnato da un coro di critiche consuete.

 

I Pavilion, una storia recente

Nonostante la Serpentine Gallery sia attiva sin dal 1970, la storia dei Pavilion è relativamente recente; il primo, a firma Zaha Hadid, risale al 2000. Da quell’anno ogni estate un architetto internazionale è chiamato a realizzare un padiglione che opera come propaggine temporanea per gli eventi dell’istituzione londinese. Riflettendo accuratamente le più recenti tendenze della critica architettonica, negli anni si è lentamente passati dall’interpellare grandi nomi (tra cui Gehry, Siza, Koolhaas, Niemeyer, Ito, Libeskind) a dare spazio a più giovani, meno conosciuti architetti e artisti (Kéré, Escobedo, Gates). Iniziativa evidentemente lodevole, anche se a tratti forse tokenista, che ha avuto come conseguenza padiglioni relativamente meno accattivanti visivamente, ma socialmente più connessi alla nuova etica della professione.

Come i suoi predecessori immediati, il padiglione di quest’anno, progettato dall’architetta franco-libanese Lina Ghotmeh, ha riaperto il dibattito su significato e valore di questi spazi temporanei. Lo scorso anno, Theaster Gates, artista americano, costruì una cappella somma di esperienze sincretiche; dai forni a bottiglia di Stoke-on-Trent alle strutture ad alveare dell’ovest degli Stati Uniti, da San Pietro e il Tempietto del Bramante alle tradizionali capanne di fango Musgum del Camerun e alle tombe Kasabi di Kampala in Uganda. L’anno precedente, fu la volta di Sumayya Vally, un architetto sudafricano che ha celebrato la storia delle memorie perdute dei sobborghi di Londra con un padiglione di materiali recuperati.

Ghotmeh (1980) è autrice di diversi progetti internazionali, tra cui l’Estonian National Museum (Grand Prix Afex 2016; candidatura premio Mies van der Rohe) e Ateliers Hermès, il primo edificio a energia passiva in Francia. In queste opere è evidente la tensione tra un’estetica delicata, a tratti poetica, e una forte ricerca del sostenibile. Il progetto del Serpentine Pavilion 2023 segue questa tendenza, nonostante appaia a un primo sguardo molto semplice: una struttura centrale con una galleria esterna e pannelli in legno traforato, decorati con intagli naturali, a definire le pareti.

 

Dalla tea house alle questioni del mondo contemporaneo

L’ispirazione arriva dall’originaria funzione di tea house della Serpentine Gallery. Ghotmeh intitola quindi il suo progetto “À table” e immagina lo spazio come luogo di raccolta e condivisione del cibo intorno a grandi tavoli. L’obiettivo finale è utilizzare il concetto di domesticità come strumento per creare uno spazio pubblico e collettivo, in una visione etica della convivialità. Con questo proposito l’architetta ha disegnato appositamente anche un menù organico, spiegando come ciò che mangiamo contribuisce a modificare le nostre relazioni con la terra. Il progetto s’interroga quindi su questioni impellenti del mondo contemporaneo, non solo di una sostenibilità immancabile, ma anche di una necessità di nuove memorie e storie per la ridefinizione degli spazi. L’”archeologia architettonica”, a cui Ghotmeh fa riferimento, è metodo operativo utile alla progettazione. Tra gli appunti e riferimenti di progetto appaiono immagini di Stonehenge accostate a quelle di banchetti etruschi, e ancora fotografie di togu’na Dogon e foglie di varie piante. Anche se alcuni collegamenti risultano in parte forzati, la fascinazione di questi accostamenti, quasi a ricordare l’atlante Mnemosyne di Aby Warburg, è enorme.

Il risultato è una composizione elegante ed essenziale, con impeccabile cura dei dettagli, come la piega delle travi del tetto che sembra inclinarsi verso un camino inesistente. Così gli intagli delle pareti creano giochi di luci e filtrano lo spazio sconfinato del parco per custodire un interno protetto ma non isolato. Il padiglione visto dall’alto ricorda vagamente una delle medaglie che adornavano il petto degli ammiragli e dei generali del Settecento (una Gran croce dell’Ordine della Sostenibilità?).

Nella sua semplicità, il progetto riesce comunque nell’intento di mediare tra la scala del parco, con la natura addomesticata, e la dimensione umana. Rafforza l’idea di un passaggio graduale dall’esterno, un deambulatorio che permette di osservare il verde, l’edificio georgiano della tea house, e infine l’interno. Lo spazio circolare, però, perfettamente geometrico, mette in evidenza una certa contraddizione. Come ogni spazio concentrico, il vuoto centrale genera infatti un senso d’inquietante attesa, di un poliziotto al centro di questa mensa/panopticon. Inoltre, la disposizione delle panche e tavoli lungo il bordo del padiglione crea una distanza che obbliga le persone a interagire, parlare e mangiare solo con coloro che sono fisicamente vicini, rendendo quasi impossibile una comunicazione alternativa che vada oltre la prossimità immediata.

La tensione tra intenzione e risultato finale è forse anche alla base del dilemma di questo “sesto” Ordine dell’architettura contemporanea: il Sostenibile. “Possiamo imparare molto dall’ingegnosità della natura“, sostiene Ghotmeh, ma lo dice all’interno di pareti traforate tagliate al laser, in un edificio che potrebbe essere smontato e venduto a un privato o altrimenti demolito. Il padiglione è un manifesto, e come ogni manifesto ha il limite della realtà. I buoni propositi di uno spazio sostenibile, e per la comunità (quale comunità?), si scontrano necessariamente con la natura effimera e fondamentalmente afunzionale di un progetto finanziato da Goldman Sachs. Contraddizioni che vanno chiaramente oltre il progetto per quest’anno, e che invitano ad una riflessione più profonda sui significati delle installazioni temporanee ma anche, per tornare a Churchill, sulla “sostenibilità” delle dinamiche tra utente e costruito.

Immagine di copertina: Serpentine Pavilion 2023 (© Lina Ghotmeh – Architecture, Photo: Iwan Baan, Courtesy: Serpentine)

 

Autori

  • Carla Molinari

    Senior Lecturer in Architecture e Direttrice del Corso di Laurea Triennale in Architettura presso la Anglia Ruskin University in Gran Bretagna, dove insegna storia, teoria e progettazione dell’architettura. Ha insegnato alla Leeds Beckett University, University of Liverpool, e Sapienza Università di Roma, dove si è dottorata in Architettura. Teoria e Progetto nel 2016. Ha pubblicato su architettura e cinema, teorie spaziali e compositive, rigenerazione urbana, e strategie narrative per l’architettura. Nel 2020 ha vinto un Paul Mellon Research Grant per una ricerca d’archivio su Gordon Cullen, e nel 2016 ha ricevuto la British Academy Fellowship dalla Accademia Nazionale dei Lincei per un progetto su Peter Greenaway e Sergei Eisenstein. Nel 2018 ha pubblicato il libro “Architettura in Sequenza” con Quodlibet.

  • Marco Spada

    Architetto e urbanista, ha ottenuto il PhD in Architettura, teorie e progetto presso l’Università Sapienza di Roma con una tesi sul paesaggio postindustriale. È stato inoltre Honorary Associate presso il Department of Geography and Planning della University of Liverpool dove ha studiato le implicazioni delle dinamiche di rigenerazione industriale sull’ambiente urbano. Ha svolto attività di ricerca in Italia, Polonia, Kenya e Regno Unito. Specializzato in narratività urbana, sostenibilità ed economia circolare in ambienti urbani, attualmente è Lecturer in Architecture presso la University of Suffolk

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Last modified: 21 Giugno 2023