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Francesca PetrettoWritten by: Progetti

Museo Ebraico di Francoforte: la parola (illuminata) diventa corpo

Visita all’intervento, firmato Staab Architekten, di restauro e ampliamento del Rotschild Palais a Francoforte sul Meno

 

FRANCOFORTE SUL MENO (GERMANIA). Un anno esatto dopo la sua riapertura, invero di brevissima durata causa pandemia, il Museo Ebraico, restaurato e ampliato dallo studio berlinese Staab Architekten (vincitore, tra venti partecipanti, del concorso bandito nel 2012 dalla Municipalità, proprietaria dell’immobile), davvero abbaglia con intense luminosità e chiarezza architettonica e di contenuti. Ancora prima di entrarvi si ha la netta sensazione di trovarsi di fronte a un’opera dai molti significati, non scontati, frutto di un preciso intento progettuale di grande profondità culturale, di linearità senza clamori e di grande contemporaneità.

Sembra che il pensiero di Moses Mendelssohn (1729-1786) ci si faccia materia al di là della pagina scritta e che la parola, cifra distintiva e fondamento della tradizione ebraica, vi trovi un corpo in cui dimorare speriamo ancora per molti, lunghissimi anni. Il riferimento al grande filosofo di origine ebraica, di una delle famiglie più importanti per la cultura tedesca, autorevole esponente dell’Illuminismo e forse ultimo profeta dell’Haskalah (l’età dei lumi ebraica e movimento culturale aperto a contaminazioni ma capace di conservare una propria identità), non è casuale.

 

Il restauro del primo museo ebraico tedesco

Aufklärung” significa in tedesco illuminismo, educazione, delucidazione, schiarimento: i pilastri dell’ebraismo riformato di cui Mendelssohn si fece fautore, iniziatore di una nuova era nella storia ebraica della diaspora, ma anche di questa architettura con solide fondamenta nella storia di Francoforte, fin dalle origini della città, capaci di sopravvivere ai peggiori eventi e alle più grandi tragedie dell’età moderna e contemporanea. È fondamentale ribadirlo per ricordare a chi ignora che l’Ebraismo è una cultura sì antica, ma viva, condivisa, molto più che sinonimo di Shoah come molti erroneamente ritengono.

Con questo progetto di restauro della vecchia sede dell’esposizione permanente del primo museo ebraico fondato in Germania – il Rotschild Palais costruito in stile neoclassico nel 1820 -, e di ampliamento con la costruzione dell’altro corpo di fabbrica a C con cui delimita la nuova Bertha-Pappenheim-Platz, lo Jüdisches Museum intende rivolgersi a un pubblico più vasto, dotandosi di un’area per conferenze e simposi, una biblioteca specializzata sempre aperta al pubblico, nuovi locali per mostre temporanee, stanze per l’amministrazione e un’elegante quanto frequentatissima caffetteria kosher, gestita da sole donne.

 

Il parallelo con Berlino

Per chi è pratico di queste latitudini, metro di paragone non può che essere il più giovane cugino berlinese griffato Daniel Libeskind, peraltro oggetto anch’esso, in contemporanea col nostro, di profonda revisione, cambio ai vertici e riallestimento dei locali e della mostra stabile. L’omologo della capitale, punto di non ritorno per l’architettura museale universale, getta le basi nella storia recente, nella forma in pianta di una stella di Davide aperta e destrutturata e nella tragedia della Shoah; i suoi corpi di fabbrica gridano il proprio orrore, il sentimento suscitato è di angoscia, il grigio del metallo e dei blocchi di cemento non concede la fuga; il suo vecchio allestimento, fortunatamente sostituito sotto la brillante direzione di Hetty Berg da uno moderno, più accattivante, universale e colorato come Berlino richiede, trasmetteva sentimenti contrastanti e poco chiari, non riuscendo a colmare il gap storico tra i più recenti orrori e quello stoico retaggio di un tempo antichissimo, sopravvissuto nei millenni a molte persecuzioni.

A Francoforte i due musei che fanno capo alla direzione di Mirjam Wenzel (lo Jüdisches Museum rinnovato di Staab e il Museum Judengasse sulla Battonnstrasse) si concentrano su uno spettro d’incredibile vastità temporale, e d’incommensurabile grandezza culturale in ogni possibile campo dello scibile umano. Il nuovo, candido “Solitär” affiancato da Volker Staab al vecchio palazzo che restaura a ridosso della riva sul Meno, non urla, non intende scioccare, rifiutandosi di cadere nel solito banale tranello: Ebrei = Olocausto = film in bianco e nero.

 

Un’architettura “illuminata & illuminista”

Certo, la storia che vi viene narrata è legata alle sorti della fantastica comunità ebraica di Francoforte, ma non è difficile estenderla a un contesto europeo/universale che moltissimo culturalmente le deve. A differenza dell’edificio berlinese di Libeskind, il nuovo di Francoforte non affronta strutturalmente la rottura radicale degli anni 1933-45, proponendosi piuttosto come continuazione contemporanea del palazzo neoclassico convertito in museo nel 1988 durante il cancellierato di Helmut Kohl.

Staab Architekten plasma una “aufgeklärte Architektur”, un’architettura “illuminata & illuminista” viva nel contemporaneo e fluida, un complesso museale che abbraccia, non ergendo cortine verso la città, e che brilla di luce propria. Se l’intervento sul palazzo della dinastia Rotschild è volto a modernizzarlo, rispettando i vincoli dell’edificio sotto tutela, ripulendo le superfici esterne, sostituendo infissi e impianti, creando un percorso museale scorrevole e senza soglie, quello squisitamente neocostruttivo parla di apertura, luce e ariosità.

L’ingresso avviene adesso attraverso il nuovo corpo di fabbrica che delimita il lato sinistro della nuova piazza-cortile. Siamo lontanissimi dai recenti esempi di Dessau sulla scia della scuola miesiana inaugurata alla Neue Nationalgalerie di Berlino: l’edificio di Staab deve proteggersi senza rifuggire altresì il dialogo col contorno urbano circostante, aprendovisi con differenti finestre e lucernari che offrono viste interno-esterno di grande interesse ed eleganza, e chiudendosi in ermetiche pareti perfette intonacate di bianco. È la cifra stilistica inconfondibile dei suoi recenti progetti per i luoghi della cultura in Germania, sempre di notevole spessore.

Ma è soprattutto negli interni che si può ammirare la levità dell’intervento architettonico. Il foyer, ampio e arioso, di semplice lettura spaziale, mette in collegamento tutti i locali accessori (biblioteca, caffetteria, bookshop, guardaroba, e laboratori) e di esposizione dell’edificio, illuminato da un ampio lucernario superiore e con affacci differenziati dai diversi locali laterali nel piano mezzanino. Generose rampe conducono ai luoghi di principale importanza: sottopiano per le mostre temporanee; tre differenti livelli per la mostra permanente, raggiungibili con gli ascensori sapientemente nascosti da caldi pannelli in frassino e fra linde pareti bianche a cornici, lesene, paraste e archi, oppure usando la bella scala elicoidale bianchissima del nuovo corpo di fabbrica in alternativa a quella monumentale, maestosa e con una galleria di specchi originale.

Apertura e riparo

Sono i due termini apparentemente antitetici, altresì in continuo dialogo in questa architettura: come la cultura ebraica in eterna evoluzione, costretta da sempre a proteggersi ma senza mai chiudersi persino alla più accesa disputa, il Museo Ebraico si apre con discrezione a chiunque sia interessato al piacere della crescita intellettuale, dell’apprendimento e della felice convivenza. L’ingresso alle strutture attorno agli spazi espositivi è sempre libero e così deve rimanere, universale come la cultura che ospita.

Per molte generazioni, i cittadini ebrei hanno vissuto perfettamente integrati nella società di Francoforte. La storia del successo della borghesia ebraica è presentata nella mostra permanente ospitata nel vecchio edificio e copre il periodo di tempo che va dall’Illuminismo ad oggi, mentre quello precedente, dalle origini alla liberazione del ghetto, fra pogrom, incendi ed età napoleonica, è narrato dal Museo sulla Judengasse. Questo sorge su un’area ricca di memorie, dove un tempo era la grande sinagoga distrutta nella Notte dei cristalli, accanto all’antico cimitero ebraico e al suggestivo memoriale Gedenkstätte Börneplatz, opera di Wandel Lorch Architekten.

 

Immagine di copertina: © Brigida González. Courtesy Staab Architekten Berlin

 

 

La carta d’identità dell’opera

Committente: Municipalità di Francoforte sul Meno
Progetto: Staab Architekten (team di concorso: Petra Wäldle, Fabian Reinsch, Veit Eckelt, Dovile Kriksciunaite; coordinamento: Per Pedersen; gestione: Anke Hafner; team: Fabian Reinsch, Marion Rehn, Leila Reese, Johannes Pape, Sabine Zoske, Moritz Grabmayr, Mirjam von Busch, Anna Dreeßen-Hüper, Zuzanna Kałużna, Nina Gromoll, Manuela Jochheim, Thomas Eysholdt, Nicole Lochocki, Jens Achtermann, Hagen Groß, Sarah Papen, Alexander Böhme, Thomas Schmidt, Patrick Naumann, Roberto Zitelli, Georg Hana, Bastian Gerner)
Arte: Ariel Schlesinger, Untitled – due alberi intrecciati verticalmente sono simbolo del mutevole ancoraggio e sradicamento degli ebrei di Francoforte nella loro società
Cronologia del cantiere: 20132020
Inagurazione: 2 novembre 2020
Superficie totale: 8.100 mq

Autore

  • Francesca Petretto

    Nata ad Alghero (1974), dopo la maturità classica conseguita a Sassari si è laureata all'Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Ha sempre affiancato agli aspetti più tecnici della professione la passione per le humanae litterae, prediligendo la ricerca storica e delle fonti e specializzandosi in interventi di conservazione di monumenti antichi e infine storia dell'architettura. Vive a Berlino, dove esegue attività di ricerca storica in ambito artistico-architettonico e lavora in giro per la Germania come autrice, giornalista freelance e curatrice. Scrive inoltre per alcune riviste di architettura e arte italiane e straniere

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Last modified: 11 Novembre 2021