Città multiculturale, città di scambi, città di accoglienza. Una città che permette interazione e contatto in un sistema multidirezionale. Ma che cosè esattamente una open city, tema della 4° edizione della Biennale di Architettura di Rotterdam? Le definizioni sono molteplici, a volte pretenziose e fumose.
Progetto ambizioso quello di Kees Christiaanse, curatore per questa edizione, che nel suo discorso inaugurale ci spiega come questa Biennale voglia provare a essere uno spazio di ricerca piuttosto che una mostra di architettura in cui star-achitects padroneggiano il podio. Uno spazio in cui lurbanità sia il centro di un discorso in cui molte domande vengono poste. Interessante il punto di vista di Christiaanse. Per lui il Randstad (la conurbazione nellestrema parte ovest dellOlanda) è un modello esemplare di città aperta, grazie alla rete di trasporti che permette ogni giorno a sette milioni di passeggeri di raggiungere in unora ogni punto estremo della regione, ma anche grazie alla decennale multiculturalità.
Il Randstad, però, si può davvero definire una open city? Pensiamo alle miriadi di Vinex (suburbi residenziali monofunzionali per le classi medio-alte), ai cluster finanziari, ai ghetti come Hoogvliet (nonostante lultima tendenza di architetti e ricercatori in Olanda sia di presentarlo come una dreamland di scambi sociali e culturali) che costellano il suo territorio. Forse, dunque, open city è un concetto fugace, ambiguo e pieno di contraddizioni.
Le opere presentate in questa edizione della Biennale sono divise in tre mostre parallele.
La principale, «Design Coexistence», allestita al Nai, racchiude lavori provenienti da tutto il mondo, da San Paolo del Brasile a Giacarta a Mumbai, suddivisi in sei sottotematiche: Maakbaarheid (concetto olandese di «fattibilità»), Refuge, Reciprocità, Community, Squat, Collective. Interessante il progetto dello studio Interboro sullintegrazione/segregazione sociale negli Stati Uniti, che prevede unistallazione sulle possibili «armi» a disposizione dellarchitetto per agevolare (o impedire) lopen city; un dizionario di strumenti semplici, come un sistema Gps o una normativa di sicurezza. Un lavoro provocatorio che il visitatore può saggiare seguendo cinque differenti percorsi tematici. Protagonista è tuttavia il caotico insieme di allestimenti della hall, il Forum, uno spazio dove il visitatore può fotocopiare fascicoli su esempi di pezzi di città open a Rotterdam, consultare libri o gustare un caffè chiedendosi se anche il tavolo è parte della mostra. Forse è proprio questa confusione/smarrimento a essere lelemento chiave della open city.
Altra mostra è quella di Amsterdam, organizzata eccezionalmente per questa edizione: un insieme di nove progetti di giovani studi di architettura olandesi commissionati per loccasione su nove diverse location attorno alla capitale. Le proposte tentano dimmaginare scenari dove la openess trasforma lurbanità schiacciata dal turismo e dalle politiche recenti della città.
A continuare la tradizione lanciata da Ricky Burdett, presente allinaugurazione, la terza mostra presenta il lavoro di 45 università nella location suggestiva del vecchio edificio destinato alla riparazione delle navi del porto di Rotterdam, dove attualmente si trova lRdm Campus della scuola specialistica. Selezionati fra 280 proposte giunte ai curatori, i lavori sono spesso visionari e graficamente improbabili, come quello della Tamkang University di Taipei sulla pratica di squatting nei cimiteri della città e la coesistenza fra individuo e spirito. Presenti solo due atenei italiani, la Prima Facoltà di Architettura di Torino e La Sapienza di Roma.
Bella la metafora di Lars Lerup, architetto e urbanista americano molto letto in Olanda, alla conferenza di apertura della mostra. Parafrasando una canzone di Leonard Cohen ci spiega: la città è come una superficie opaca piena di crepe. Sono proprio le crepe presenti su di essa ad aprire le possibilità per la diversità sociale, per la coesistenza e linterazione.
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