L’Expo di Osaka spinge a rivolgere uno sguardo, incantato, ad una cultura che da sempre attira e affascina il mondo del progetto
Sono trascorsi 140 anni: il 14 marzo 1885, al Savoy di Londra, Arthur Sullivan e William Schwenck Gilbert portavano in scena The Mikado. Fu la prima di 672 rappresentazioni consecutive, serie senza precedenti e prova, non solo oltremanica, del posto che il Giappone sul finire del XIX secolo andava assumendo nella coscienza europea. Stampe policrome dei maestri di epoca Edo e oggetti d’uso quotidiano – fossero lacche, chimono, ventagli, ombrelli o paraventi – avevano aperto la via a suggestioni per un Oriente lontano, ambiguo e misterioso, popolato da geisha e samurai, come già lo erano stati l’islam delle odalische, l’India dei maragià o il Siam di elefanti e pagode.
La fascinazione, diventata presto la frastagliata onda del japonisme, si protrasse lungo il Novecento attraverso corsi e ricorsi di intensità variabile: dal fiasco della Butterfly pucciniana alla Scala di Milano al riconoscimento tributato dai protagonisti del Movimento moderno all’architettura residenziale.
Sulla cartolina con una riproduzione del giardino di Ryōanji che il 23 giugno 1954 inviava da Higashiyama, Walter Gropius scriveva: “Caro Corbu, tutto ciò per cui abbiamo combattuto ha un parallelo nell’antica cultura giapponese. Questo giardino roccioso dei monaci Zen del XIII secolo – pietre e ciottoli bianchi rastrellati – potrebbe essere opera di Arp o Brancusi, un luogo esaltante di pace. Saresti entusiasta quanto me di fronte a questa saggezza culturale di 2000 anni! La casa giapponese è la migliore e la più moderna che conosca, ed è veramente prefabbricata”.
Del resto, anche nelle loro manifestazioni meno colte, japonisme e, più avanti, néo-japonisme, sono stati un fenomeno complesso che mescolava aspetti della storia del costume, velleità per una palingenesi dei canoni artistici, nostalgia di spiritualità perdute e un confuso trasporto verso lidi esotici. Si è trattato di uno dei momenti piuttosto rari nella storia dei rapporti tra nazioni occidentali e resto del mondo in cui il paradigma coloniale è stato ribaltato.
Pur col rischio di ridurre un’intera cultura a un’essenza estetica o di cedere ad atteggiamenti di condiscendenza, il fascino subito da artisti, architetti e intellettuali europei ed americani, nonché poi dal mainstream, è indice della consapevolezza della senescenza in cui versava la tradizione in cui erano cresciuti, e testimonia che muovevano verso Oriente animati da una curiosità genuina, da desiderio di freschezza e di rinnovamento, da disponibilità a meravigliarsi e ad imparare. Il contrario di una posizione di presunta superiorità.
È dunque con radici affondate in una lunga storia di ammiccamenti, simpatie e credulo entusiasmo, impastati talora, nelle tumultuose vicende novecentesche, con timore e sconcerto, che occorre situare l’attuale successo del Giappone quale meta turistica: un che di analogo a un pellegrinaggio, che è andato ingrossando la propria corsa di mese in mese dalla riapertura post-epidemica delle frontiere.
2024: un pellegrinaggio da primato
Stando ai dati del Kokusai Kankō Shinkō Kikō, l’ente nazionale del turismo, il 2024 ha stabilito un primato: gli ingressi nel paese sono stati quasi 37 milioni, con una spesa complessiva in loco – altro primato – di circa otto bilioni di yen, 50 miliardi di euro. Che vuol dire, per i numeri, un incremento del 53% sull’anno precedente e, per le lettere, l’avverarsi per ciascuno dell’esperienza del signor Palomar davanti all’aiola di sabbia: “stretto sulla pedana in mezzo a centinaia di visitatori che lo spingono da tutte le parti, obiettivi di macchine fotografiche e di cineprese che si fanno largo tra i gomiti, i ginocchi, gli orecchi della folla inquadrando le rocce e la sabbia da ogni angolazione, illuminate dalla luce naturale o dai flash. Torme di piedi in calzini di lana lo scavalcano, figliolanze numerose vengono spinte in prima fila da genitori pedagogici, frotte di studenti in uniforme si sospingono, ansiosi solo di smaltire al più presto la visita scolastica al monumento famoso”.
Certo, nell’attuale affollarsi attorno al Giappone conta la debolezza della moneta; ma essa ha solo permesso di dare corpo a un desiderio collettivo a lungo coltivato.
Il Sol Levante, sulla soglia di casa
Chi vagheggi il Sol Levante, se lo trova in fondo sulla soglia di casa, cioè in una qualsiasi libreria e persino in edicola, per non dire al ristorante e al supermercato. Se ne sono impossessati supplementi di quotidiani e riviste specializzate, tomi da sala d’aspetto e pieghevoli di agenzia, carta patinata e formati digitali nonché, a profusione, tutta una pubblicistica più o meno divulgativa, via via ripetitiva per non dire stucchevole, che aggiorna al XXI secolo le occidentali istanze otto e novecentesche secondo dinamiche di un complessivo, graduale allontanamento dagli schemi dell’illusione esotica. Che, peraltro, continua ad esercitare una giustificata latente forza magnetica, appena mutata dallo scorrere del tempo: all’ammirazione dei fratelli Goncourt e di Félix Bracquemond per la raffinatezza delle immagini stilizzate che piovevano come da un altro mondo in rue Vivienne due secoli fa si è andata affiancando l’ossessione per una certa idea austera di design portata alla ribalta in ambiti tanto diversi quanto la moda e l’architettura; al mito di un Giappone funzionalista e razionalista ante litteram – come nella citata cartolina – si è aggiunto il mito di un Giappone da sempre post-moderno, complice L’empire des signes di Roland Barthes, per via di quel culto del vuoto così spesso malinteso e della presunta assenza di motivi ordinatori, in filosofia quanto in urbanistica, irriducibile a logiche cartesiane e dualità metafisiche.
Una coevità non subalterna
Tant’è. Resta la sensazione, andando là, come è presumibile sarà anche per i visitatori dell’imminente Expo di Osaka – di un accadere apparentato al proprio eppure sostanzialmente differente; sensazione corroborata dalla constatazione infinita, in cose e persone, di una coevità per niente subalterna che il Giappone intrattiene con altre modernità asiatiche e occidentali.
Che sia la vicenda di una rassomiglianza ingannevole, di una fagocitosi volontaria o di una sopraffazione mascherata – ipotesi sulle quali si sono profusi gli storici per tutto il secolo scorso – la modernità nipponica, oggi come 140 anni fa, si offre quale ormeggio alla stremata sensibilità occidentale, placa il desiderio di un altrove ideale, del sogno di un altrove, di una alternativa al disincanto che qua proviamo quotidianamente.
Immagine di copertina: il municipio di Tokyo di Kenzo Tange sulla copertina di “Att Japan”, aprile-maggio 2003
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expo osaka , giappone , turismo
Last modified: 2 Aprile 2025