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Fulvio IraceWritten by: Professione e Formazione

Luigi Caccia Dominioni (1913-2016), l’architetto al servizio della società

Luigi Caccia Dominioni (1913-2016), l’architetto al servizio della società

I suoi interventi a Milano sono emblema della teoria delle preesistenze ambientali e di un’architettura “post-ideologica”. Subì l’interdetto e le critiche sessantottine ma seppe plasmare i gusti della committenza borghese

 

Una vita lunga un secolo è di per sé un fatto eccezionale: ancor più se si tratta di una vita perseguita con l’intensità con cui Luigi Caccia Dominioni ha costruito la sua carriera di architetto e designer, ma soprattutto resa credibile e visibile la nuova immagine di Milano nel momento del suo maggiore sviluppo durante gli anni del miracolo economico.

La sua attività nel campo dell’architettura coincide infatti con la lenta ripresa tra le macerie di guerra, costruendo, insieme con la casa Tognella al parco Sempione dell’amico Ignazio Gardella, l’architettura inaugurale di quello che poi sarebbe stato definito lo “stile milanese”: la casa di piazza Sant’Ambrogio che sostituiva l’originaria casa paterna, rimaneggiata da Alberico Belgioioso negli anni ’20 del Novecento e semidistrutta dai bombardamenti. Un capolavoro di equilibrio tra antico e moderno, un esempio ante litteram dei benefici effetti della teoria delle “preesistenze ambientali”; ma riconosciuto tale solo oggi, dopo il lungo silenzio o l’indifferenza virata all’insofferenza, riservategli dalla cultura architettonica d’impronta accademica. Salvo la benevola accoglienza di alcune architetture come “gli armigeri” di corso Europa (che Ernesto Nathan Rogers su “Casabella” accoglieva col sollievo di chi alla fine può dimostrare la validità delle sue intuizioni critiche), la vasta produzione con cui Caccia ha modellato lo skyline milanese nelle aree del centro e in quelle della nuova espansione verso la Fiera, è stata avvolta dal buio dell’informazione.

Una sorte molto diversa da quella di Gardella – la cui posizione accademica gli ha garantito un’aura di timoroso rispetto- e simile a quella di Vico Magistretti, la cui fama non ha mai veramente superato i confini del design. Ha pesato su di loro l’interdetto sancito negli anni sessanta dalla critica ai “baroni rampanti”, con la conseguente (e infamante) accusa di “professionismo”: cioè di resa ai gusti e agli interessi di una borghesia inguaribilmente conservatrice e trasformista.

Non è un caso se la rivalutazione corrente della figura di Caccia (che risale solo al 2002, anno della prima monografica a Castelvecchio, curata da chi scrive con Paola Marini) trova oggi uno dei suoi punti di forza nella cultura nordeuropea e in particolare dall’ETH di Zurigo (cfr. il numero monografico di “Das Werk”, dicembre 2013) dove Adam Caruso ha precisato i termini della cosiddetta “architettura post-ideologica” per giustificare le sue ricerche su Asnago & Vender.

Dietro le critiche sessantottine e l’ostinato mutismo dei decenni successivi, si nasconde tuttavia un equivoco che la dice lunga anche sulla capacità della nostra critica professionale di fare i conti con i propri interdetti e ideologie: se si esaminano con attenzione le architetture di Caccia (e non da meno i suoi interni), non si fa fatica a comprenderne lo straordinario valore innovativo. Caccia non si adegua ai gusti della committenza borghese, ma li crea: si finge pariniano precettor d’amabil riso per condurre i suoi clienti all’accettazione felice di uno stile di vita che egli ritiene consono all’essere moderni. Alcuni dei committenti appartengono alla sua classe sociale (primi tra tutti i Pirelli e i Bassetti), altri sono esponenti della nuova borghesia postbellica delle professioni: per entrambi predispone architetture che rifiutano ogni sovraesposizione, che non s’impongono ma s’inseriscono nella città, che anzi costruiscono veri e propri paesaggi urbani attraverso una serie di clamorose strategie progettuali. Come in Santa Maria alla Porta, dove l’edificio si sdoppia in due, quasi a simulare una stratificazione temporale; o in via Catena, dove un’esile cerniera tra la banca di BBPR e l’abside di San Fedele costruisce il più convincente brano d’integrazione ambientale di Milano.

Meno indagati finora, i suoi “interni” (chiamarli arredamenti sarebbe errato e fuorviante, visto che molto è lasciato alla volontà degli abitanti) meritano di essere catalogati e interpretati con la logica dell’atlante: solo così si mette a fuoco il carattere strategico e ricorrente delle soluzioni tipo, che riguardano sia la scala globale della pianta che la risoluzione specifica dei singoli elementi (le porte, gli armadi, le nicchie, ecc.). Solo in tal modo si può comprendere come la singolarità di Caccia (e dei coetanei a lui più vicini) consista in quella dimensione di cui oggi abbiamo più bisogno: quella dell’architettura come servizio alla società.

Autore

  • Fulvio Irace

    Docente ordinario di Storia dell'architettura al Politecnico di Milano, è visiting professor all’Accademia di Architettura di Mendrisio. I suoi interessi di studioso si sono indirizzati da molti decenni sull’architettura italiana del 900, con una particolare attitudine (ed empatia critica) verso le figure “minori” (da Mollino a Ponti, da Muzio ad Asnago & Vender, Magistretti, ecc) che oggi costituiscono l'inedita costellazione di una storia “diversa”. Su tali temi ha scritto libri e organizzato mostre (da "AnniTrenta", 1982, a "Facecity", 2012), rifiutandosi di distinguere la storia dalla critica, la filologia dall’interpretazione. In tal senso considera la sua collaborazione alle riviste e al Domenicale de "Il Sole24ore" come parte integrante di un’attenzione alla contemporaneità e di un’idea di critica come doveroso rischio intellettuale

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Last modified: 29 Novembre 2016