Carlo Olmo, fondatore del Giornale, introduce una riflessione sui cambi di paradigma nella ricerca storica, spiegando i presupposti del suo approccio e i fili rossi che connettono le sue recenti pubblicazioni
Esiste ancora nell’università italiana la cultura di una ricerca che costruisca un progetto, lo articoli in ipotesi e tesi e offra alla comunità scientifica, a scadenze che rispettino il lavoro su documenti, fonti, letteratura esistente, esiti che siano discutibili e falsabili? Non è solo questione di retoriche (dalla società fluida al consumo quasi istantaneo di libri come fossero pop corn). Nè solo di esiti di sempre più dilaganti tentativi d’imporre la procedura rispetto alla responsabilità individuale del giudizio, sostituita da algoritmi, minimi naturalmente quantitativi, sfarinamento di quel che può essere considerato «prodotto» scientifico. La questione di fondo è il cambiamento antropologico del docente e della docenza universitaria, cui sempre meno si chiede di studiare e sempre più di organizzare, produrre eventi, firmare accordi, vagolare vittima di un’internazionalizzazione a prescindere, quasi degna del peggior Totò.
È in questo quadro, ovviamente qui ridotto quasi a pochade, che l’intenzione sopra dichiarata appare quasi residuale. Giustamente qualcuno (non pochi) potrebbero eccepire: solo chi ha raggiunto la tua posizione (quasi confuciana e figlia dell’elaborazione del lutto, non solo di una scuola che non c’è più) può permettersi di non rispettare la regola degli articoli in categoria A, dei refereé (e delle loro distorsioni), della produzione di carte, non saprei come altro definirle, destinate a legittimare l’istituzione, se stessi, le procedure, le geopolitiche che regolano il funzionamento dei cosiddetti settori scientifici disciplinari. Ma forse qualcuno si ricorda di aver letto L’Homme revolté di Albert Camus e La Nausée di Jean-Paul Sartre e di averne tratto qualche utilità.
Ma qual era, se c’era, l’entrance knolewdge di questa ricerca? La risposta completa dovrebbe ripercorrere una riflessione su cosa sono storia e architettura, iniziata nel 1980 con il mio testo La città industriale e via via maturata grazie a confronti con alcuni studiosi della mia generazione, in primis e per ricordare in ordine sparso solo i più decisivi, Marcel Roncayolo, Bernard Lepetit, Angelo Torre, Jean-Louis Cohen, Werner Oechslin, Ignasi Sola Morales Rubio. E prima di tutti Roberto Gabetti e Paolo Fossati.
Che cosa è via via maturato e mi ha indotto a intraprendere un’avventura simile? Certo l’insoddisfazione per le storie esistenti, ad iniziare dalle loro fonti e dalla progressiva affermazione di una riduzione semplificatoria dell’architettura. E sono queste ragioni che per onestà intellettuale devono essere rese esplicite prima di delineare il percorso seguito e le sue tappe.
Che cosa è fonte per la storia dell’architettura e, quasi di conseguenza, quali sono gli «attrezzi» necessari per interrogarle? Le risposte sono tutt’altro che scontate. Certo i disegni (quasi scontatamente assunti come autoriali) e le opere (quasi sempre prese in considerazione alla consegna delle chiavi). Due fonti che scricchiolano appena le si assuma come non naturali! E non solo perché lo statuto dei disegni è tutt’altro che legato solo all’ideazione e perché l’opera inizia la sua vita con… la consegna delle chiavi. Vorrei solo esemplificare. Roberto Longhi concettualizzò la bottega: non sta certo a me fare la storia della fortuna di quell’assunzione insieme metodologica e critica. In architettura dalla loge si è passati all’atelier, senza un’autentica problematizzazione. Certo la storia dell’architettura dà quasi per scontata l’attribuzione: la vicenda del ponte Morandi (quasi grottesca, non fosse per la tragedia) porta all’estremo quel paradosso. Ma riconoscere dinamiche, socialità, ruoli dentro atelier che variano da uno ad alcune migliaia d’impiegati non è problema da poco. Non si tratta di demitizzare i maestri o le archistar, si tratta di restituire la natura delle fonti (e il loro essere una produzione sociale) e di fornirsi di strumenti (dalla sociologia dei gruppi e del lavoro in poi) per poterle interrogare.
Se poi l’opera inizia la sua vita del tutto autonoma dal suo creatore, tale storia (che può durare secoli) mette in gioco dai committenti divenuti più o meno felici abitanti (la vicenda della famiglia Savoye è in questo più che paradigmatica), alle destinazioni che spesso si fanno beffe della funzione (categoria che declinata dalla tipologia in poi, ha strutturato intere generazioni di storie dell’architettura). Eppure chiese che diventano sale da concerto, ville che diventano fienili, conventi che diventano caserme, fabbriche che diventano loft, popolano le nostre città. E con loro l’abitare (nella sua autentica radice heideggeriana) diventa la ragione stessa del variare degli usi, dei costumi, delle forme, nonché la chiave di accesso per interrogare quella fonte. Con non marginali effetti collaterali. Ne cito solo uno: quale periodizzazione emerge se la vita dell’opera non si ferma alla consegna delle chiavi?
Ma l’aspetto insieme più problematico e inquietante è che l’universo delle fonti che lo storico dell’architettura si ritrova per le mani non si ferma certo qui. L’architettura è il prodotto di norme e insieme produce giurisprudenza: un rapporto già in sè estremamente complesso, perché le “norme” sono insieme interne (basta pensare quanto i trattati e i manuali hanno segnato la sua storia) e definite, persino per gli ornamenti da regolamenti che seguono l’evolversi di concetti come decoro, gusto e proprietà nella storia delle civilizzazioni. Ma alcune architetture hanno anche generato legislazioni. Senza cadere nella provocazione delle sanatorie di città, case, persino verande o pseudo tali, si potrebbe scrivere la storia di alcune branche del diritto non solo amministrativo facendo la storia di scale non solo di case! E senza ricorrere a Georges Simenon!
Ma l’architettura è una merce molto simile a un’anguilla. Il suo valore può nascere dal luogo; può essere segnato dalla vetustà che al contrario può generare non solo ricchezza, ma forme di autentico collezionismo; può subire le recessioni e perdere quasi istantaneamente il suo valore o diventare lo strumento per uscire da crisi economiche. Ma forse la fonte più complessa da indagare riguarda il confine e l’uso di cosa è pubblico e privato in architettura: in un ingresso condiviso come in una piazza che diventa il luogo della democrazia e del consenso in pochi anni.
La cassetta degli attrezzi per saper anche solo reggere l’impatto di una siffatta complessità aiuta a spiegare perché proprio in architettura si verifichino le più radicali semplificazioni e perché le sue storie siano narrazioni quasi sempre affidate a un’unica fonte. Ma se l’impoverimento voluto o subito (oggi dall’architettura sostenibile a quella smart) ci aiuta a spiegare l’omologazione di uno dei prodotti più complessi dell’umanità, esso ci spiega anche la perdita d’interesse (e di attrattività) che l’architettura ha subito in questi ultimi tre decenni. Un’architettura in facies formale o tecnica è quasi assorbita da saperi semplificatori e unidirezionali, nei fini (sono entrambi neutrali, ad esempio). Ma in una fase storica in cui la retorica dominante è quella dell’amico/nemico, come possono essere proposti un sapere e una narrazione che sono ontologicamente ostici e perdono quasi ogni fascino se li si semplifica? Bisogna tornare a Camus e Sartre, magari questa volta invertiti. La nausea è l’esito quasi scontato dell’omologazione, la rivolta è il difficile cammino che anche solo il rispetto della produzione delle fonti dovrebbe implicare.
Sono questi i sentimenti o, se si vuole eccedere in entusiasmo, le ragioni che stanno dietro il progetto che si proverà a restituire.
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libri , movimento moderno , Storiografia
Last modified: 24 Febbraio 2020