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Luca GibelloWritten by: Progetti

Il mastodonte delle Confluences

Il mastodonte delle Confluences

LIONE (FRANCIA). Con un (bel) po’ di ritardo (anche Oltralpe non tutto viaggia secondo programma, in quanto per quasi un decennio il cantiere è stato fermo alle fondamenta), dal 20 dicembre la punta della Presqu’île, alla confluenza della Saona nel Rodano, ha il suo agognato landmark. Il Musée des Confluences, grande iniziativa pubblica totalmente finanziata dal Dipartimento del Rodano per la bellezza di 255,4 milioni (lievitati dai 61 stimati in partenza, mentre in ballo c’è un contenzioso con Vinci, mandataria del raggruppamento d’imprese esecutrici), è stato concepito per segnare l’ingresso in città da sud e invogliare alla visita i non avvezzi al turismo culturale. Di certo, l’edificio non passa inosservato, non solo per la collocazione ma per le forme e le dimensioni: un mastodonte (180 x 90 m le dimensioni massime) piuttosto sgraziato e dall’equilibrio apparentemente labile, parte in vetro e parte in inox, che poggia su «zampe» (3 piloni + 14 pilastri monumentali) verso sud e ancorato a un cementizio basamento di accesso a nord, verso il centro città.
A un primo sguardo, la poetica di volumi frammentati e superfici spezzate propria di Coop Himmelb(l)au mostra la corda: d’altronde, è del 2001 il concorso internazionale che vide prevalere lo studio viennese e tutto sembra inesorabilmente dejà vu, soprattutto dopo il loro intervento per il cinema UFA a Dresda (1993-1998). L’avvicinamento da nord rivela l’infelicità del sito, a ridosso di un aggrovigliato incrocio stradale con tanto di passaggio di autostrada urbana in sopraelevata e preceduto da terreni en friche. Deve infatti ancora avviarsi la seconda parte del vastissimo intervento di riqualificazione urbana di Lyon Confluence, piuttosto riuscito lungo la Saona, capace di aver restituito alla città, con una pluralità di funzioni, un intero comparto ex industriale fatto di magazzini, fabbriche, banchine e aree ferroviarie e di servizio.
Giunti ai piedi della monumentale scala di accesso, l’edificio appare meno mastodontico rispetto all’impatto che da lontano suscitano le sue collisioni tettoniche. Il grande atrio vetrato a tutt’altezza (1.300 mq, chiamato dai progettisti il “cristallo”), se da un lato ha il pregio di porsi come foyer urbano, attraversabile a livello terra verso la confluenza dei fiumi (dove dalla primavera sarà a disposizione un giardino pubblico di 24.000 mq, sempre disegnato da Coop Himmelb(l)lau), dall’altro rivela un’articolazione spaziale fatta di virtuosismi gratuiti: scale, mensole, tiranti, una rampa a spirale sospesa nel vuoto che vorrebbe richiamare una promenade architecturale e soprattutto il grande conoide imploso (il “pozzo di gravità”), complicazione strutturale fine a se stessa.
La “nuvola” (dal peso di 6.000 tonnellate), completamente carrozzata in lastre di inox (ovviamente di dimensioni tutte diverse tra loro, come i vetri), ospita le sale per le esposizioni temporanee – al primo piano – e permanenti – al secondo -, distribuite da un ampissimo corridoio-slargo centrale dall’aspetto tuttavia dimesso. Le sale, appena 4 per piano, rivelano un rapporto quasi paradossale tra spazi serviti e di servizio: un totale di appena 4.700 mq sui 27.000 di superficie utile (comprendenti un auditorium e, dal 2016, un centro di documentazione, oltre a uffici e depositi); un rapporto che si amplifica guardando all’esiguo numero di oggetti esposti rispetto a quelli posseduti – circa 3.000 contro gli oltre 2,2 milioni della collezione proveniente dal Museo Guimet di storia naturale (chiuso in centro città dal 2007) e da numerose acquisizioni. Infine, nessuna relazione tra esterno e interno della “nuvola”: nè a livello visivo (le sale sono completamente cieche), nè spaziale. L’articolata scocca esterna non trova infatti corrispondenza nella geometria interna degli ambienti squadrati (al massimo trapezoidali): scatole nere lasciate al grezzo e alla fantasia degli allestitori (ma lo scheletro del grande mammut, ad esempio, avrebbe meritato uno spazio a lui conforme). E, come per ogni architettura che si fregi tale, la prova del 9 viene dalla visita delle toilettes, qui derubricate a ordinari servizi (sia come qualità spaziale che dei materiali), pari a quelli di un qualsiasi centro commerciale.
Ma i paradossi riguardano anche l’involucro (la «carcassa», verrebbe da dire usando una metafora paleontologica legata al contenuto del museo): solo in parte, infatti, esso si fa «macchina panoramica» come la collocazione pretenderebbe. Ciò avviene ovviamente attraverso le vetrate interne, mentre gli spazi aperti e fruibili in copertura restano in subordine; dalla terrazza del caffè la vista verso il centro città è maldestramente «filtrata» dall’ossatura metallica che regge la cortina vetrata, mentre verso la confluenza si è preferito ergere inaccessibili gobbe e creste metalliche. Ne risulta che gli unici due punti panoramici esterni sono altrettanti balconcini a sbalzo su grigliato, striminziti quanto vertiginosi. Evidentemente, nulla o quasi deve intaccare la scocca preziosa; e così anche gli sparuti pannelli fotovoltaici, giustapposti e non integrati rispetto alle superfici, sono relegati nelle conche nascoste delle gobbe sommitali, non sempre orientati secondo la miglior esposizione.
Insomma, Coop Himmelb(l)au, che nel frattempo ha anche concluso un cantiere altrettanto prestigioso (ma attualmente agli onori delle cronache non certo per ragioni architettoniche) come la nuova sede della Banca centrale europea a Francoforte sul Meno, sembra aver smarrito alla grande scala l’originalità della ricerca e la carica iconoclasta che caratterizzavano, ad esempio, l’attico viennese in Falkestrasse (1983-88), vera dichiarazione d’intenti.
Non meno problematico è l’approccio museologico, che spiazza – ma al contempo stimola – il visitatore, incrociando – in ossequio alla retorica della confluenza di saperi, culture, persone – gli ambiti scientifici (storia naturale, antropologia, arte, etnografia, paleontologia, meccanica e storia delle tecniche) e talvolta anche i periodi storici. Così, lo sguardo interrogante dei curatori scientifici si cristallizza in 4 temi – uno per sala; le origini, le specie, le società, l’aldilà -, ciascuno declinato secondo differenti allestimenti, affidati con eccellenti esiti ad altrettanti professionisti. Il costo complessivo per il funzionamento annuale del Musée des Confluences è calcolato in 18,5 milioni, mentre i visitatori, tutti paganti, del primo mese dall’apertura sono stati circa 100.000. Bonne chance!
Come antidoto al mastodonte, proponiamo di salire la collina di Fourvière e visitare il Museo gallo-romano, di cui ricorre il quarantennio dall’apertura su progetto di Bernard Zehrfuss: evocativo quanto accogliente e intimo percorso ipogeo che fonde architettura in beton brut e museografia. Una lezione, di metodo e di stile, che non ha perso la sua freschezza e attualità.

Per saperne di più
www.museedesconfluences.fr
www.lyon-confluence.fr
www.musees-gallo-romains.com/lyon_fourviere

La carta d’identità del progetto
Committente: Département du Rhône
Progetto: COOP HIMMELB(L)AU Wolf D. Prix & Partner (Project Partner: Markus Prossnigg;
Project Architects: Mona Bayr, Angus Schoenberger; Design Architect: Tom Wiscombe; Project Coordination: Thomas Margaretha, Peter Grell; Project Team Vienna: Christopher Beccone, Guy Bébié, Lorenz Bürgi, Wolfgang Fiel, Kai Hellat, Robert Haranza, Alex Jackson, Georg Kolmayr, Daniel Kerbler, Lucas Kulnig, Andreas Mieling, Marianna Milioni, Daniel Moral, Jutta Schädler, Andrea Schöning, Mario Schwary, Markus Schwarz, Oliver Tessmann, Dionicio Valdez, Philipp Vogt, Markus Wings, Christoph Ziegler; Project Team Lione: Patrick Lhomme, Francois Texier, Philippe Folliasson, Etienne Champenois, Alexandru Gheorghe, Niels Hiller, Emanuele Iacono, Pierre-Yves Six)
Local Architects: Patriarche & Co (planning); MESA Workshop / Grégory Perrin (cantiere); Chabanne & Partenaires (project management)
Costi: Mazet & Associés; CUBIC
Strutture: B+G Ingenieure, Bollinger und Grohmann (Francoforte, progetto); Coyne et Bellier, VS_A (cantiere)
HVAC: ITEE-Fluides
Antincendio: Cabinet Casso & Cie
Acustica: Cabinet Lamoureux
Consulenti media: Cabinet Labeyrie
Illuminotecnica: Har Hollands (Eindhoven)
Paesaggio: EGIS aménagement
Allestimenti: Klapisch-Claisse (origini e aldilà), Zen + dCo (specie), Du & Ma (società)

Autore

  • Luca Gibello

    Nato a Biella (1970), nel 1996 si laurea presso il Politecnico di Torino, dove nel 2001 consegue il dottorato di ricerca in Storia dell’architettura e dell’urbanistica. Ha svolto attività di ricerca sui temi della trasformazione delle aree industriali dismesse in Italia. Presso il Politecnico di Torino e l'Università di Trento ha tenuto corsi di Storia dell’architettura contemporanea e di Storia della critica e della letteratura architettonica. Collabora a “Il Giornale dell’Architettura” dalla sua fondazione nel 2002; dal 2004 ne è caporedattore e dal 2015 al 2024 è direttore. Oltre a saggi critici e storici, ha pubblicato libri e ha seguito il coordinamento scientifico-redazionale del "Dizionario dell’architettura del XX secolo" per l'Istituto dell’Enciclopedia Italiana (2003). Con "Cantieri d'alta quota. Breve storia della costruzione dei rifugi sulle Alpi" (2011, tradotto in francese e tedesco a cura del Club Alpino Svizzero nel 2014), primo studio sistematico sul tema, unisce l'interesse per la storia dell'architettura con la passione da sempre coltivata verso l’alpinismo (ha salito tutte le 82 vette delle Alpi sopra i 4000 metri). Nel 2012 ha fondato e da allora presiede l'associazione culturale Cantieri d'alta quota

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Last modified: 30 Giugno 2015