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Michele RodaWritten by: Reviews

Il potere del disegno, dalla metropoli orizzontale alla città fantastica

Il potere del disegno, dalla metropoli orizzontale alla città fantastica

Nell’epoca della dittatura delle immagini, anche le pubblicazioni cedono spesso al virtuosismo grafico. Due testi raccontano percorsi diversi e originali

 

Ci sono molti elementi che giustificano una lettura parallela di HM the Horizontal Metropolis e The city of imagination. Innanzitutto gli autori, studiosi e ricercatori italiani (Paola Viganò con Chiara Cavalieri da un lato, Valerio Morabito dall’altro) con consolidate esperienze didattiche e di ricerca all’estero (rispettivamente EPFL di Losanna, UCL di Lovanio, Penn University negli Stati Uniti) che pubblicano lavori di peso con editori esteri (la svizzera Park Books e la newyorkese ORO Editions).

La lingua è dunque l’inglese, ma non sono tanto i testi a definire l’identità delle pubblicazioni, quanto invece le immagini, capaci di conquistarsi un ruolo essenziale. I disegni (circa 250 per Viganò-Cavalieri, 150 per Morabito) non sono infatti intesi come strumento di rappresentazione, bensì come fattori determinanti di un percorso intenso – e apparentemente senza conclusione – che muove dalla conoscenza dei tanti luoghi raccontati verso possibili esiti progettuali che non possono fare a meno di una consapevolezza conquistata proprio attraverso il segno grafico.

Percorsi, dunque, che sembrano snodarsi lungo direzioni diverse, quasi antitetiche. Più lineare e rigoroso quello degli atlanti narrativi a cura di Chiara Cavalieri e Paola Viganò (HM the Horizontal Metropolis. A radical project, Park Books, 2019, 232 pagine, 38 euro), la cui pubblicazione organizza e sintetizza materiali già diffusi, con una mostra a Losanna nel 2015 e alla Biennale di Venezia del 2016, e che sviluppa una ricerca iniziata insieme a Bernardo Secchi. Sono 5 le regioni emblematiche – le aree metropolitane di Boston e di Huangzhou, i territori svizzeri nei pressi di Losanna e del Vallese, le pianure venete dell’entroterra veneziano – ad essere raccontate attraverso un processo stratificato che unisce immagini fotografiche (aeree ma anche on the road), mappe interpretative di fenomeni socio-economici e, soprattutto, modelli fisici (esplicitamente ispirati a quelli di Frank Lloyd Wright per Broadacre City). L’approccio più innovativo sta poi nella serie di affascinanti disegni a colori tenui che sperimentano l’integrazione dello sguardo planimetrico con l’estrusione assonometrica di alberi, edifici, mezzi di trasporto. Questi sguardi e questi diagrammi diventano un’esplorazione di quella dimensione fortemente contemporanea che le curatrici definiscono come metropoli orizzontale e che descrivono come una forma di progettazione in tre capitoli/episodi: persone e luoghi, misure, un progetto radicale.

Più erratico è il percorso tracciato da Valerio Morabito (The city of imagination, ORO Editions, 2020, 208 pagine, 34 euro), un viaggio di scoperta – come ci dice il titolo, introducendo il tema dell’immaginazione -, un racconto quasi calviniano, in cui 11 tipi di città (dalla città del suolo alla città del tempo) tentano di catalogare per analogia decine di luoghi diversi che l’autore descrive con brevi testi, lasciando grande spazio – anche in pagina – alle suggestioni suscitate dalla riproduzione di pannelli con tratti prevalentemente neri, ma che non rinunciano all’uso mirato del colore. Se Cavalieri e Viganò descrivono razionalmente per strati e per elementi, Morabito allude e stimola con geometrie grafiche complesse, capaci di svincolarsi dalla tradizione disciplinare delle diverse viste verso una dimensione che porta lo sguardo architettonico su un piano di sperimentazione artistica. Le città sembrano restituire, in questo processo accelerato, una propria identità profonda, spesso nascosta e apparentemente irraggiungibile, che proprio un punto di vista trasversale recupera nella sua essenza. «Cerco di spiegare come riconoscere le tracce nelle città, le modalità per rappresentarle in mappe delle memorie e come disegnarle, così che possano aiutare a migliorare la nostra immaginazione, le nostre idee e i nostri progetti», scrive l’autore nell’introduzione.

Il senso stesso del disegno esce profondamente rinnovato – e per certi versi rinfrancato – da questi lavori. Strumento, innanzitutto, per cogliere la dimensione degli habitat contemporanei. Come detto da Viganò, «Riusare, riconfigurare e riciclare sono le strategie fondamentali del nostro lavoro, basate sull’ipotesi che lo spazio, urbano e territoriale, possa essere una risorsa rinnovabile se esplorata e progettata con strumenti precisi e adeguati». Strumenti, quindi, non solo di rappresentazione ma soprattutto d’interpretazione: «Gli atlanti della metropoli orizzontale si propongono come un luogo aperto, non esaustivo né completo né tantomeno definitivo, tanto per la rappresentazione quanto per l’interpretazione. Rendono possibili diversi generi di collegamenti tra i singoli elementi e incoraggiano nuovi e sorprendenti percorsi che stimolano il lettore ad applicare diversi livelli interpretativi», scrive Cavalieri. La sorpresa, l’inatteso e l’errore sono aspetti che proprio i disegni sembrano poter provocare, come spiega James Corner nella premessa a The city of imagination, in un cortocircuito capace di rinnovare il progetto nella sua forma più autentica, come causa-effetto della rappresentazione grafica: «Questi disegni non sono semplici astrazioni artistiche. La città è spesso percepita in uno stato di distrazione, con le persone che non prestano veramente attenzione ma raccolgono inconsapevolmente frammenti, resti, pezzi e pezzettini, tutti accumulati in molti diversi viaggi nel tempo. Non è mai un’immagine completa, ma piuttosto un insieme di tracce, di riconoscimenti parziali e di orizzonti non ancora completati. Qui forse possiamo vedere il valore autentico del lavoro di Morabito: non solo come produzione artistica (ovvero il disegno) ma come ricerca rispetto ai modi in cui proprio i luoghi fisici nel mondo maturano significato, memoria, effetto e potenziale».

Autore

  • Michele Roda

    Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale

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Last modified: 7 Gennaio 2021