Percorsi europei di unitarietà e coerenza nei progetti del trio italo-tedesco che sfruttano le potenzialità di un’architettura costruita su misura per il mondo dell’arte
Musei, gallerie, fiere ed esposizioni: come si progettano gli spazi per l’arte? E perché lo studio berlinese Kuehn-Malvezzi è così rinomato fra gli artisti e tanto ricercato nell’ambito dell’architettura dedicata alle loro opere? In lingua tedesca, il termine classico Architektur trova un esemplare sinonimo nell’autoctono Baukunst (lett. “arte di costruire”): lo possiamo far diventare, in una sorta di manifesto-gioco di parole per il trio italo-tedesco Simona Malvezzi, Johannes e Wilfried Kuehn, “Bau-an-der-Kunst”, “costruzione attorno all’arte”, ovvero per l’arte, ad essa funzionale. Così progettano, “attorno all’arte”, i tre soci dello studio più in di Berlino: sfruttando le potenzialità di un’architettura costruita a misura d’uomo e su misura per l’arte, che non vuole auto-rappresentarsi ma dare il giusto luogo – come teorizzava Oswald M. Ungers – alla presentazione delle opere degli artisti e alla loro corretta, il più possibile piacevole fruizione da parte del pubblico. Dal 2001 (anno della sua fondazione) ad oggi, lo studio K-M, un bell’esempio di collaborazione (e amicizia) senza frontiere di questa nuova, giovane Europa unita, ha lavorato lungo un fil rouge di grande coerenza ed unitarietà, producendo lavori di altissimo livello qualitativo. Il convincimento che ogni singolo progetto debba essere frutto di un processo organico di collaborazione con i differenti partner del momento (artista, direttore di museo, curatore di mostra, collezionista), il coraggio e l’ardire, spesso vincenti, di ribaltare criticamente i bandi di concorso cui si partecipa, la capacità di pensare proprio come gli artisti per cui si lavora, sono la chiave di un successo su scala internazionale.
Attraverso le opere (2001-2017)
In uno dei primi progetti realizzati, per Documenta11 (Kassel, 2002), vengono gettate le basi di un modus operandi che si consoliderà negli anni a seguire. Utilizzando in maniera sapiente il display a disposizione, ovvero il magazzino da convertire in spazio espositivo, si pensa di realizzare un modello urbano in scala 1:1, una matrice ripetibile all’interno del padiglione, dove le stanze degli artisti sono libere nello spazio come gli edifici di una città in miniatura, mentre i percorsi non vincolati dei visitatori sono le strade aperte, e i loro luoghi di sosta, garantiti ovunque, le panchine di slarghi e piazze. Il visitatore deve avere la possibilità di crearsi la propria personale maglia di spostamenti, essere in sostanza libero di scegliere la sua propria narrazione.
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Il concetto viene ripreso nel disegno degli spazi per la Fine Art Fair di Frankfurt am Main (2007), che reinterpreta il tipo del padiglione fieristico in maniera funzionale a una piacevole fruizione delle opere in mostra (ancora una volta per percorsi liberi) più che alla loro vendita. I pannelli nelle quattro forme base I, L, T, +, al posto degli usuali stand, rivoluzionano una concezione altrimenti esclusivamente economicista dell’organizzazione degli ambienti espositivi, facendo segnare un grande successo estetico alla kermesse e cambiando de facto la percezione da parte del grande pubblico di opere d’arte ed evento fieristico in sé.
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Nel progetto per lo Schloss Berlin (Berlino, 2008), dove andranno a confluire tutte le collezioni extra-europee del patrimonio etnologico raccolto da Alexander Von Humboldt e suoi successori, capovolgere criticamente il bando di concorso non porta alla vittoria, ma giova al futuro di un giovane studio, seriamente impegnato nel perseguire la propria coerente unitarietà d’intenti ed interventi, in questo caso nel dichiarare la propria contrarietà a una vicenda costruttiva tanto controversa quanto assurda e anacronistica. Kuehn-Malvezzi non progettano, polemicamente, la cupola richiesta, proponendo un’alternativa non finita, quasi al grezzo dei materiali, in contrasto con l’idea che l’architettura debba essere la decorazione di un display politico. Il corpo dell’edificio storico ricostruito, nel suo enorme volume in mattoni, è capovolto rispetto alla Schloßplatz del progetto vincitore di Franco Stella; guarda discretamente, attraverso un’agorà limitata da una facciata-diaframma, al Lustgarten con Altes Museum di Schinkel, più apertamente in direzione Bauakademie, oltre la Sprea: qui ha il suo exhibit space totalmente privo di copie di statue, lesene o colonne d’epoca.
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Percorsi, dialoghi, narrazioni individuali diventano anche il tema dell’installazione spaziale per la Biennale di Venezia 2012 curata da David Chipperfield, di fronte e dentro il Padiglione Italia. Due forme elementari, un ottagono e un rettangolo, in archetipico, vero mattone, deviano il percorso fisso, assiale che dai Giardini conduce al foyer d’ingresso e alla sala centrale, invitando alla sosta, alla scelta personale di ciascun visitatore per arginarle o attraversarle in diagonale. Il nome dell’opera è in esperanto, “Komuna Fundamento”, perché così come quella lingua senza nazione, il terreno comune ed unico d’incontro per gli architetti non esiste ma è un sogno, una meta da rincorrere di volta in volta in genesi e scoperta progettuali.
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Col progetto per il Kunstgewerbemuseum (Berlino, 2014) gli architetti son chiamati ad intervenire su un edificio per anni assai dileggiato, parte dell’irrisolto Kulturforum e a ridosso dell’anarchica Potsdamer Platz – una delle aree da sempre più discusse della capitale tedesca. Nemmeno qui intendono in alcun modo rivaleggiare con preesistenze o collezioni d’arte, impegnandosi altresì a suggerire, nel più totale caos labirintico dell’edificio brutalista di Rolf Gutbrod (1985), sensati percorsi di guida attraverso le aree tematiche, sottolineando le soglie di passaggio e la suddivisione dei luoghi visitabili fra sale espositive e ambienti di servizio.
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Il rigore geometrico delle forme non è affatto in antitesi col mondo delle vive realtà cittadine cui gli architetti si ispirano e con cui dicono di voler dialogare; soprattutto non lo è col loro modo organico di pensare e creare. Lo si vede soprattutto nella realizzazione progettata per la Berlinische Galerie (Berlino, 2004), dove la vitalità del quartiere residenziale di Kreuzberg irrompe nell’architettura e la composizione delle narrazioni personali dei singoli visitatori di Kassel, Francoforte o Venezia prende forma sulle lettere del tappeto giallo-nero della gigantesca Rayuela (coi nomi degli artisti ospitati nella galleria più trendy di Berlino) disegnata davanti al museo e su cui giocano, felici, i bambini di un multietnico vicinato insieme agli adulti che hanno appena visitato la collezione.
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Una poetica infine ripresa, nell’ultimo dei progetti (2017), a Saarbrücken, per l’ampliamento della Moderne Galerie di Hanns Schönecker (1968). L’intervento, pur andando a innestarsi fra i tre volumi esistenti, non ne vuole affatto seguire la logica: li completa, quarto volume e nuova piazza di connessione museo-città, ma ha le sue proprie regole. Anziché saltare sullo Scarabeo gigante di Kreuzberg, alla ricerca dei nomi degli artisti esposti o di una storia, si può provare a seguire le frasi stampate in nero sulle lastre pavimentali di pietra chiara della piazza o sugli intonaci rustici parietali. Impossibile trovarne la fine se non nel ripetersi ossessivo della parola Museum che invita logicamente a cercarla all’interno dell’edificio stesso. Il nuovo parallelepipedo ha la propria anima indipendente, un ingresso autonomo, una piazza moderna e la spettacolare installazione di colori creata ad hoc da Pae White.
Quelli che paiono solo piccoli, discreti interventi di agopuntura, permettono in realtà grandi soluzioni e importanti vittorie spaziali.
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«Il mondo è pieno di oggetti ed è anche pieno di opere d’arte. In questa condizione di sovraffollamento la sfida ci pare stia meno nell’invenzione di ulteriori oggetti quanto in un design curatoriale che riesca a creare relazioni nuove e più intelligenti tra quello che esiste già. In questo senso sia l’arte che l’architettura devono essere concettuali e precise nell’intervenire in situazioni concrete evitando ogni narcisismo formale. Si tratta di generare nuove ottiche su quello che c’è già. Oppure di creare nuovi utilizzi di oggetti esistenti e relazioni inedite tra opere d’arte note attraverso nuovi rapporti spaziali».
Wilfried Kuehn
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arte contemporanea , berlino , gallerie d'arte , germania , musei
Last modified: 5 Marzo 2018