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Federica RussoWritten by: Progetti

Una fortezza impacchettata nella plastica in una zona morta di Londra

Una fortezza impacchettata nella plastica in una zona morta di Londra

La nuova Ambasciata americana a Londra: delude l’ambizioso intervento firmato Kieran Timberlake costato un miliardo di dollari e collocato in un quartiere ancora più deludente. Per Trump, “un cattivo affare”

 

LONDRA. “Trasparenza, apertura, uguaglianza“: sarebbero questi i valori fondanti della democrazia americana ispiratori del progetto per la nuova Ambasciata nella capitale britannica, ripetuti come un mantra dagli architetti dello studio Kieran Timberlake durante la conferenza stampa ufficiale e in ogni intervista (compresa la nostra, di seguito). Non sembrano però aver convinto i giornalisti: «la nuova ambasciata americana è una fortezza impacchettata nella plastica in una zona morta di Londra. Non c’è da stupirsi se Trump non la visiterà», ha titolato dalle pagine di “The TelegraphEllis Woodman, critico d’architettura e direttore dell’Architecture Foundation, ed è questa l’opinione condivisa dalla maggior parte della stampa britannica (cfr. la rassegna stampa, di seguito).

Eppure è stata sicuramente un’impresa difficile e ambiziosa, quella intrapresa dallo studio di Philadelphia, combattuta fin dall’inizio con l’arma dell’efficienza, della tecnologia e della funzionalità e un approccio assolutamente politically correct a giustificare ogni scelta progettuale. Stiamo parlando di un edificio di 12 piani, circa 48.000 mq, che produce più energia di quanta ne consumi ospitando ogni giorno 800 impiegati e oltre mille visitatori, che supera gli standard di sostenibilità sia nella misurazione americana che inglese raggiungendo livelli “platinum” in LEED e “outstanding” in BREEAM e supererà le linee guida 2019 del sindaco di Londra. Un cubo di vetro che risponde ai più alti parametri di sicurezza nonostante la sua trasparenza, cercando di mimetizzare i più sofisticati apparati di difesa tra le vele di tetrafluoroetilene e il landscape del parco di accesso, con tanto di fossato allagato.

Tutto questo senza annoverare il cambio di tre presidenze durante l’intero processo: dall’approvazione dell’amministrazione Bush nel 2008, alla posa della prima pietra nel 2013 sotto Barack Obama, all’inaugurazione a gennaio 2018 con conseguente ripudio di Donald Trump.

Onore al merito ai progettisti per il sottile gioco di diplomazia e compromesso, nonostante abbia preso il completo sopravvento sull’architettura, come scrive sulle pagine di “AJ” la giornalista Hattie Hartman: «Lo splendore architettonico sembra essere stato oscurato nel guizzo di dare una forma partendo dalla ricerca delle sole prestazioni. La diplomazia è l’arte della negoziazione e del compromesso, e chiaramente questo era un progetto con molti vincoli. La nuova ambasciata degli Stati Uniti va letta come un edificio che ottimizza piuttosto che trascendere. Forse è proprio qui che la diplomazia fa i conti con il mondo complesso di oggi».

La reazione sommariamente negativa della critica non è però da imputare solo a questo. Vi sono vari fattori da tenere in conto che non giocano a favore nel bilancio generale: iniziando dal fatto che sarebbe stato difficile per chiunque, sostituire quella che è stata una delle ambasciate più amate di tutti i tempi, una gemma del modernismo, progettata nel 1960 da Eero Saarinen. A dirla tutta molti gioiscono della liberazione dal “dominio americano” dello storico edificio e dell’antistante Grosvenor Square, con conseguente apertura al pubblico, seppur di un certo tipo, nel suo futuro di albergo di lusso, apparentemente l’unico successo nell’operazione globale della nuova ambasciata americana.

Un altro fattore importante è la sua delocalizzazione dalla centralissima Mayfair a quella che per un’ambasciata è pura periferia: Nine Elm. Adiacente a Battersea, è una delle più grandi, ma non più amate, aree di sviluppo di Londra, dove si stanno concentrando numerosi capitali immobiliari e finanziari, ma anche edifici che non spiccano per eleganza, né per buona progettazione urbanistica o architettonica.

Inoltre il costo: stiamo parlando di un miliardo di dollari, una cifra incredibile per un edificio di questa grandezza, che nonostante sia giustificabile nelle sue performance, non lo è affatto se ne dovessimo giudicare la qualità architettonica del risultato.

Immaginiamo le difficoltà che un incarico del genere porta con sé, e comprendiamo che molte scelte non sono nemmeno imputabili all’architetto, ma le mille pagine di specifiche tecniche e le alte prestazioni non bastano a fare di un progetto un buon progetto. Su questo ci troviamo in linea con il parere di Rowan Moore dalle pagine del Guardian, sia sulla nuova ambasciata americana, sia, da buoni italiani, sul caffè di Starbucks: «La nuova ambasciata è blanda, vaniglia, proprio come una cena diplomatica è raramente riottosa e un discorso diplomatico è raramente avvincente. Il suo uso di arte, natura e decorazione è un po’ Starbucks – un grande vaniglia latte – e con circa la stessa relazione con la vera architettura che Starbucks ha con il vero caffè».

 

Tre domande a James Timberlake, partner di KieranTimberlake   

Quali linee guida avete seguito durante le varie fasi di progetto?La sfida espressiva è stata quella di dare forma alle convinzioni fondamentali della democrazia – trasparenza, apertura e uguaglianza – in un modo che fosse sicuro e rispettoso dell’ambiente.

 

Qual è stata la decisione più difficile in campo progettuale?

La forma dell’Ambasciata, dall’urbanistica complessiva, alla massa, al paesaggio, fino al più piccolo dettaglio, è stata il risultato dei nostri sforzi per risolvere in termini architettonici le contraddizioni tra ciò che le nostre ambasciate aspirano ad essere e ciò che le realtà presenti le obbligano ad essere. La sfida consisteva nel risolvere le aspirazioni espressive per “l’apertura” e allo stesso tempo filtrare tutto ciò che entra, dalle persone, all’aria e persino ai materiali.

 

Qual è stata la migliore opportunità che avete trovato come architetti nel processo di progettazione e costruzione dell’Ambasciata?

Nella forma e nell’espressione della nuova Ambasciata abbiamo cercato una fusione olistica con il sito e con il paesaggio. Abbiamo cercato di realizzare un’opera che sia al contempo evocativa e performante, che rappresenti la nostra democrazia e il nostro rapporto con il Regno Unito in modo bello ma allo stesso tempo possa conservare e produrre energia. Tutti gli elementi concorrono a definire l’architettura in più modi, dall’immagine, all’espressione, all’ambiente, all’urbanistica, nonché alla produttività e al comfort degli utenti. Nella nostra architettura non crediamo che questi obiettivi possano essere separati. Devono lavorare insieme, fornendo olisticamente nuove sinergie che fanno risuonare ancora più nel profondo la forma della nuova ambasciata.

RASSEGNA STAMPA

Jonathan Morrison, The Times, 16 gennaio 2018

«Non capita spesso di trovarmi d’accordo con Donald Trump, ma per qualsiasi standard, pagare un miliardo di dollari (o più) per un blando cubo di vetro in una desolata periferia a sud del Tamigi rappresenta un “cattivo affare”».

«L’ambasciata è una degna aggiunta alla collezione di Battersea di alcune delle architetture moderne meno attraenti di Londra. Tuttavia, sarebbe potuta essere peggio: se Trump avesse avuto voce in capitolo, sarebbe stata probabilmente dipinta d’oro”».

Sheena McKenzie CNN, 12 gennaio 2018

«Un cubo di vetro da 1 miliardo: l’ambasciata che Trump pensa sia un ‘cattivo affare’»

«Tuttavia, l’architetto James Timberlake ha dichiarato alla CNN che il progetto ha soddisfatto i severi requisiti di sicurezza e che l’esterno scintillante la rende “una delle prime ambasciate di vetro del mondo a trasmettere un’atmosfera aperta e accogliente”».

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Ellis Woodman The Telegraph, 17 gennaio 2018

«Una fortezza impacchettata nella plastica in una zona morta di Londra. Non c’è da stupirsi se Trump non la visiterà»

«ll nuovo sito dell’Ambasciata, vicino alla riva sud del Tamigi, può permettersi magnifici panorami sul fiume, ma il quartiere emergente all’interno del quale sorge si è dimostrato uno dei progetti di rigenerazione urbana più tragicamente fraintesi della recente storia di Londra».

Rowan Moore The Guardian, 17 dicembre 2017

«La nuova Ambasciata è blanda, vaniglia, proprio come una cena diplomatica è raramente riottosa e un discorso diplomatico è raramente avvincente. Il suo uso di arte, natura e decorazione è un po’ Starbucks – un grande vaniglia latte – e con circa la stessa relazione con la vera architettura che Starbucks ha con il vero caffè. I molteplici obiettivi di Timberlake sono tutti buoni e degni, ma come il desiderio di pace nel mondo e la fine della fame sono banali».

«Il nuovo edificio è anche meglio di tutto ciò che gli sviluppatori stanno mettendo in piedi attorno ad esso. Questo è un debole elogio, ovviamente, ma non è dannoso».

William Booth The independent, 29 dicembre 2017

«Ken Livingstone, l’ex sindaco di Londra, disse che la città si aspettava “qualcosa di un po’ più eccitante”Potrebbero essere smentiti. Le recensioni non sono ancora arrivate. Ma l’ambasciata è – se si può dire di un’ambasciata americana nel 2017 – davvero cool».

«Dopo che il progetto fu annunciato anni fa, Martin Linton, allora parlamentare di Battersea, disse “assomiglia un po’ troppo ad una zolletta di zucchero”».

Hattie Hartman AJ, 13 dicembre 2017

«Un principio progettuale prevalente della nuova ambasciata degli Stati Uniti è la performance. “Ogni elemento di design doveva essere performativo e propositivo e ciascuno doveva risolvere più di tre, quattro o cinque problemi contemporaneamente”, osserva Timberlake. La gioia architettonica sembra essere stata oscurata nel salto dalla forma a questa ricerca miracolosa di prestazioni. Gran parte della diplomazia è un’arte di negoziazione e di compromesso, e chiaramente questo era un progetto con molti vincoli. La nuova Ambasciata degli Stati Uniti va letta come un edificio che ottimizza piuttosto che trascendere. Forse è proprio qui che la diplomazia fa i conti con il mondo complesso di oggi.

«Mentre la nuova ambasciata è deludente, l’edificio sembra ancora essere il più promettente di Nine Elms. Cosa ancora più deludente».

Autore

  • Federica Russo

    Laureata all’Università “La Sapienza” di Roma, è co-fondatrice dello studio di architettura Valari. Ha lavorato in studi internazionali come Haworth Tompkins e Allies & Morrison a Londra, VYA nei Paesi Bassi e Massimiliano Fuksas a Roma. Dal 2006 ha collaborato come giornalista freelance per diverse testate d’architettura tra cui Artribune, Compasses, Presstletter, Livingroome, a edizioni speciali de L’Arca e A10 ed è co-autrice del libro “Backstage Architecture” (2011)

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Last modified: 7 Febbraio 2018