Il progetto era, per Nicoletti, un’avventura nomade da raccontare con poche forme essenziali, quelle necessarie a divenire simbolo
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Se dovessi definire con poche parole Manfredi Nicoletti architetto direi che è stato un futurista attento e ingegnoso, per quanto i termini possano sembrare contraddittori.
Pienamente immerso nella tradizione del Movimento moderno, Nicoletti era un entusiasta della soluzione inaspettata, che desta sorpresa, dell’innovazione tecnica che diviene spettacolo da comunicare in modo diretto e sintetico. Credo che in questo avessero influito le esperienze giovanili. Certamente l’insegnamento di Giacomo Balla, di cui era stato allievo, ma forse anche la cultura artigiana della storica ditta di falegnameria del padre Leonida, reatino e pionieristico appassionato di volo.
Laureato in architettura nel 1953 a Roma, ammiratore di Felix Candela e Otto Frei, amico di Sergio Musmeci, Nicoletti leggeva nelle forme dell’elica l’espressione di un futuro vitale e dinamico, “macchinista” senza appesantire questa parola di gravami profetici, come in tante vicende moderne. Il suo fantastico grattacielo elicoidale, amorevolmente curato in tutti i dettagli, collaudato nelle gallerie del vento di Torino e New York per risolvere con leggerezza l’eterno problema delle spinte orizzontali, era, certo, un congegno intelligente che trasforma un problema statico in uno aerodinamico, ma era soprattutto, mi pare, un’intuizione artistica.
Nicoletti ha sempre gelosamente difeso, peraltro, nell’insegnamento come nella professione, un margine estremo d’immediatezza e individualità; un confine entro cui coltivare non solo le proprie convinzioni disciplinari ma anche il gusto per l’espressione personale, per l’aspetto meno dimostrabile, e quindi più difficile, della propria ricerca. Non a caso il suo primo libro importante, scritto nel 1955, riguardava Raimondo D’Aronco, figura singolare di architetto internazionale che aveva fatto dell’invenzione il centro di una ricerca sofisticata e versatile.
In questo quadro va vista, credo, la sua grande passione per la natura, per le strutture organiche del mondo vegetale che esplorava con attenzione poetica, per ricavarne materia di progetto, aiutato in questo, nella migliore tradizione romana, da una mano straordinaria. Il progetto era, per Nicoletti, una strada inesplorata da percorrere, un esperimento e un’avventura nomade da raccontare «in poche forme essenziali: quelle necessarie a divenire simbolo». Visti tutti insieme, con la sintesi che ogni conclusione comporta, questi lavori sembrano unirsi e formare una sola poderosa, molteplice, turbolenta opera aperta capace della rigidità seriale dell’Ospedale di Agrigento e delle esplosioni dell’Opera di Cardiff, del rigore dell’Università di Udine e del tumulto del Parco urbano di Bologna.
La sua ricerca poliedrica e aperta, raccoglieva ogni sollecitazione che dagli angoli più remoti del pianeta arrivasse al suo studio sull’antica via Recta/Coronari, dove non sembrava affatto stemperarsi e addomesticarsi tra i muri della Storia ma, anzi, rimanere viva, allo stato sorgivo, come se davvero egli progettasse, di volta in volta, in Malaysia, in Grecia, nel Kazakistan, in Nigeria e in tante altre parti del mondo.
Credo che Nicoletti sia stato un grande viaggiatore nel senso più nobile del termine: capace di stabilire una simpatia complessa e fertile con i luoghi, sapendo, però, di doverli presto lasciare, costretto dalla propria natura di esploratore curioso e inquieto a percorrere, irresistibilmente, nuove strade.
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