Visita al parco-museo brasiliano, premiato a San Paolo in occasione della X Biennale Iberoamericana di Architettura e Urbanistica
Nel saggio “La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte”, Hans Belting sostiene la possibilità di rintracciare all’interno della storia dell’arte tre macro-epoche: quella “prima dell’era dell’arte”, che include tutti quei prodotti non intenzionalmente nati per essere riconosciuti come risultato di una ricerca creativa; la seconda, “era dell’arte in sè”, che perdura fino al modernismo, in cui l’arte incarna una tendenzialmente mimetica rappresentazione della realtà; infine, l’era “dopo l’arte”, che vede la libera proclamazione della dimensione soggettiva dell’artista, in cui l’opera passa ad acquisire una connotazione quasi filosofica.
Nella transizione tra la seconda e terza fase si possono inserire i movimenti degli anni cinquanta e sessanta, ultimi a manifestare gli esiti di uno sviluppo complessivamente lineare. Gli anni settanta sono segnati da un nuovo tipo di esplorazione, rigorosa ma priva di direzioni definite, che aprirà le porte all’arte odierna e alla perdita della narratività intrinsecamente presente fino a quel momento. Questo ha posto la museografia e l’architettura espositiva davanti all’interrogativo sul come esporre un’arte che ha smesso di essere narrativa.
Un museo non narrativo
Inhotim sorge in un’area di preservazione che comprende un corridoio ecologico, nello Stato del Minas Gerais
. La regione, tradizionalmente nota come “miniera del Brasile” per le 800 tonnellate di oro estratte e reimpiegate oltreoceano nelle corti portoghesi del XVIII secolo, vive oggi prevalentemente di agricoltura, fortemente centralizzata rispetto alla capitale Belo Horizonte.
La triangolazione geografica tra Inhotim, le attrazioni di Oscar Niemeyer a Belo Horizonte e le chiese barocche di Ouro Preto si rivelò funzionale al visionario impresario Bernardo de Mello Paz, quando, nel 1984, decise di trasformare i suoi terreni e la sua collezione di arte contemporanea in un complesso paesaggistico innescando, altresì, l’attivazione di un circuito d’interesse turistico virtuoso per l’intera regione, (basti pensare alla valorizzazione di più del 300% degli immobili adiacenti negli ultimi cinque anni).
Spostandosi lungo percorsi più o meno scoscesi, durante la visita s’incontrano inaspettatamente sculture immerse in una rigogliosa vegetazione secolare, spianate aride con viste panoramiche e padiglioni ciascuno con un’identità differente; 140 ettari concepiti come un museo a cielo aperto, dove natura, architettura e arte si fondono per un’inconsueta esperienza contemplativa e interattiva.
I ventisei padiglioni attuali sono strutturati in una conformazione dovuta al graduale processo di espansione organica e spontanea del parco nei suoi oltre trent’anni di apertura (catalogo ufficiale: “Inhotim, arquitetura, arte e paisagem, editora Monolito 2015”). Ai progettisti chiamati di volta in volta a intervenire viene chiesto di superare il concetto di “scatola” e di pensare alle gallerie in funzione delle opere che vi saranno allocate, o di configurare ambienti in cui il paesaggio sia parte integrante, enfatizzando l’importanza di una simultaneità artistico-naturale.
È il caso del Sonic Pavilion, situato in una delle spianate più elevate del parco e progettato dallo stesso artista Doug Aitken: una costruzione cilindrica vetrata rivestita con una membrana che altera la trasparenza del vetro in funzione della posizione del visitatore rispetto alle superfici curve, consentendo una visione coincidente con il campo visivo solo collocandosi nel centro. In questo punto, da un foro a pavimento, illuminato da un oculo in copertura, proviene il suono emesso da microfoni posti a 200 m di profondità che trasmettono l’eco della terra. L’artista intende così trasmettere la percezione di un contatto ideale tra orizzonte e asse cielo-terra.
Tra gli altri interventi, da segnalare quelli del giovane studio Rizoma, che comincia a lavorare nel parco nel 2011 occupandosi di progetti d’infrastrutture tra cui i servizi, il piccolo ristorante e la nuova reception, proponendo architetture dalla spazialità semplice e costituite di pochi elementi (piani orizzontali in cemento e pilastri sottili a sezione circolare con tamponamenti vetrati), di un’essenzialità quasi miesiana. Nel 2015 viene concluso il loro secondo padiglione, per le opere dell’artista brasiliano Tunga (scomparso pochi mesi fa), il quale aveva specificamente richiesto una galleria aperta al contesto, con molteplici accessi e “infinite possibilità di percorrere lo spazio”, ampi corridoi che funzionassero come locali espositivi e diversi punti di vista sulle sculture.
Il Centro de Educação e Cultura Burle Marx nel 2010 si è aggiudicato il premio Mies Crown Hall (MCHAP) dell’Illinois Institute of Technology. Tra i 225 partecipanti, il progetto dello studio Arquitetos Associados era entrato da finalista a fianco di studi come Herzog & de Meuron, Gehry Partners e Steven Holl Architects. Si tratta di uno spazio destinato ai programmi educativi del museo in campo artistico e ambientale. In copertura ospita il “Narcissus Garden Inhotim” (2009), opera tra le più emblematiche dell’artista nipponico Yayoi Kusama, costituita da 500 sfere di acciaio inox che, galleggiando in uno specchio d’acqua, riflettono l’intorno, mentre lo spettatore rimane sospeso in una sorta di “tappeto cinetico”.
In quanto a riconoscimenti, il più recente, assegnato – per quanto concerne il settore espositivo – durante la decima edizione della Biennale Iberoamericana (tenutasi a San Paolo dal 10 al 12 ottobre), ha riguardato la Galleria Maxita Yano, padiglione ultimato nel 2015 sempre a firma di Arquitetos Associados e destinato ai lavori della fotografa di origini brasiliane Claudia Andujar. Gli esponenti delle comunità indigene oggetto di alcuni reportage di Andujar hanno rinominato l’opera in lingua Yanomami “Casa del Mattone”, per il rivestimento in argille cotte di produzione artigianale locale che, giocando con la luce filtrata dalla vegetazione, conferisce al manufatto un’immagine esterna mutevole e di forte impatto scenico.
Durante la cerimonia della Biennale, incentrata sul riconoscimento alla carriera dell’architetto portoghese Eduardo Souto de Moura “per l’importante contributo all’insegnamento della disciplina dell’architettura, oltre che alla sua pratica in una traiettoria sempre piena di emozioni”, è stato messo in luce il ruolo che Inhotim, con i suoi 250.000 visitatori annui, sta svolgendo nel riformulare i paradigmi della museologia tradizionale e nell’apertura di nuove prospettive espositive.
Altri padiglioni sono stati riconosciuti come opere d’interesse architettonico, fotografati e premiati per la loro sensibilità nel “cercare di rendere possibile ciò che l’artista immagina”, ritenuta prioritaria rispetto ad una pretenziosa ricerca di autoreferenzialità. Romantica esortazione alle future proposte museali, Guggenheim inclusi.
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musei , paesaggio
Last modified: 2 Novembre 2016