Un colloquio (rapido e furtivo) con l’architetto portoghese di passaggio a Genova, tra fama, scuola, prospettive
GENOVA. Abbiamo incontrato Eduardo Souto de Moura presso la Facoltà di Architettura, nel centro storico. L’architetto portoghese, ospite in città del ciclo “Lezioni di Architettura. Tre maestri a Palazzo Ducale” organizzato dall’Ordine degli Architetti di Genova in collaborazione con la Fondazione Palazzo Ducale, aveva infatti nel frattempo chiesto di poter visitare le architetture progettate da Ignazio Gardella. In una pausa del tour, ci riceve cordialmente.
Qual è il suo rapporto con la fama e come questa ha cambiato il suo modo di svolgere la professione?
Faccio lo sforzo di non pensarci, ma certo dopo il Pritzker [vinto nel 2011; n.d.a.] la mia vita professionale è cambiata. Non posso dire diversamente. Nel senso che prima lavoravo solo in Portogallo e dopo, con i premi, sono riuscito ad avere dei lavori fuori, scansando la crisi del mio Paese. Viaggio molto di più. Tuttavia, le condizioni generali di lavoro in Portogallo, come in Europa o negli Stati Uniti, sono cambiate. Al di là della fama penso che la professione, il mestiere dell’architetto, si siano molto modificati. Non voglio dire che prima fosse meglio e ora peggio, ma che la condizioni si sono evolute, come è normale che sia. È necessario stare attenti alle nuove tecnologie, alle mutate situazioni generali; le regole della “realtà” cambiano ed è difficile stare al passo con i tempi. Almeno per me che non sono più un giovane.
Oltre che progettista, Lei è anche docente in diverse Università: come si completano i due ruoli nella sua esperienza?
Io ho questo problema, do priorità alla professione. Mi piace l’idea che attraverso il mio lavoro posso portare un contributo, posso migliorare il mondo e fare cose per le persone. Lavorare con i giovani mi serve molto, l’aria è fresca. Mi serve per uscire dallo studio, dal ritmo dettato dalle dinamiche del lavoro, dalla burocrazia, le riunioni, in quanto c’è molta pressione. Quando insegno mi piace porre dei problemi ai miei studenti e capire come li risolvono. Nessuno lo sa ma io faccio il mio progetto in testa e poi comparo la mia idea con le soluzioni ideate dagli studenti. Faccio loro delle domande per capire meglio le soluzioni che propongono. Questo è ciò che mi interessa ma il problema è che non può essere continuo; quando sono a scuola penso al lavoro di cantiere e viceversa. Per questo faccio workshop, in modo da potermi concentrare sull’insegnamento e poi tornare al lavoro.
Quali sono i concetti chiave per l’architettura futura, affinché essa possa assolvere a un ruolo sociale di maggior rilievo?
Penso che l’architettura debba essere collegata alla vita, alla realtà; deve capirla e trasformarla, senza limitarsi a un approccio puramente meccanicista. Essa non può cioè ragionare solo per forma e funzione. Deve dare un contributo, non solo a livello funzionale ma anche emotivo.
Ha visitato l’Expo di Milano? Che cosa ne pensa?
No, non l’ho visitato. E per dire la verità non mi interessa molto. Nel ‘98 ho allestito la mostra all’interno del padiglione del Portogallo progettato da Alvaro Siza a Lisbona; prima avevo allestito una mostra sull’arte contemporanea portoghese a Siviglia per l’Expo ‘92. Poi, sempre con Siza, ho progettato il padiglione del Portogallo ad Hannover per l’Expo 2000. In quest’ultima occasione ho compreso che l’Expo è una realtà che ormai apparteneva al XIX secolo, quindi la reputo attuale. Non penso sia un evento più necessario nella realtà globalizzata che viviamo. Il tema dell’Expo di Milano è interessante ma penso che potesse essere più appropriato un congresso, con esperti, magari con delle mostre. Ma non posso e non voglio fare la critica dell’Expo 2015 perché, come ho detto, non l’ho visitata per i motivi che ho detto. Ho visto solo delle foto e nessun edificio mi ha colpito.
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eduardo souto de moura , expo 2015
Last modified: 19 Ottobre 2015