Visit Sponsor

Written by: Inchieste

Il tavolo del Tav. Come è variato il progetto e come è stato gestito il conflitto. Tre voci a confronto

Dopo gli avvenimenti di Venaus del 2005 è stato costituito l’Osservatorio con il compito di riesaminare la situazione e ricucire il rapporto con il territorio. A che punto siamo ora?
Il progetto infrastrutturale sta procedendo regolarmente e, rispetto anche a poco tempo fa, il clima è cambiato: una parte di incerti è diventata favorevole, un’altra, non trascurabile, di contrari ha assunto posizioni dialoganti. Una minoranza si è tuttavia pericolosamente radicalizzata spostando il movimento, che originariamente aveva una genuina natura democratico-popolare e un forte radicamento territoriale, verso una deriva di antagonismo estremista a prevalente connotazione «antisistema». Questo movimento non parla più di come è fatta la Torino – Lione, ma di che cosa rappresenta. Il logo No Tav è diventato un simbolo di successo e di facile comunicazione chiamato a evocare il «no» a un intero modello di sviluppo contestato per ragioni politiche generali. Per quanto riguarda il progetto vero e proprio, invece, anche gli esponenti più ostili ormai riconoscono che veri problemi ambientali e rischi per la salute non ci sono più.

Quali sono stati i passi fondamentali di questo processo che ha affiancato il progetto dal 2002 a oggi?
Il progetto del 2002-2003 era difficilmente difendibile per carenze di varia natura: non serviva Torino, né per le merci né per i passeggeri, passava nelle zone a più alta concentrazione di rocce amiantifere e chiudeva l’imbocco della Val Cenischia; a questo si aggiungano tutti gli aspetti di metodo. E qui, io lo dico sempre, va riconosciuto al movimento No Tav di essersi opposto con ragione a errori di metodo e contenuto. L’Osservatorio ha reimpostato il processo in modo radicale e inedito per il campo delle infrastrutture e abbiamo cercato, per quanto possibile, di far diventare gli elementi del territorio (criticità e valori) con un livello di cogenza analogo a quelli che sono i vincoli e le caratteristiche ferroviarie. Abbiamo cercato di rendere le preesistenze territoriali opportunità. Questo, forse, è stato il lavoro più grosso e probabilmente meno noto perché molto capillare e quotidiano.

Ai cittadini, ancora oggi non è chiaro cosa sia cambiato dal primo progetto; perché queste cose non le avete comunicate e condivise subito con l’opinione pubblica?
La comunicazione sulla Torino-Lione l’hanno fatta i No Tav mentre le istituzioni proponenti hanno giocato sulla difensiva; le ragioni sono molte: si va dalla sottovalutazione culturale del problema, ai conflitti di competenza sulla comunicazione, fino all’assenza di un apposito capitolo di spesa per l’informazione; le Ferrovie (Ltf, Rfi) sono orientate, perlopiù, a investire in comunicazione nella logica della réclame della propria opera. Questo non solo non è utile, ma anzi è dannoso. Mi sono battuto perché si desse conto delle attività svolte attraverso un’informazione strutturata e sono nati i quaderni dell’Osservatorio: l’ultimo, il QT8, che pubblica l’analisi costi-benefici, è appena uscito. Va però sottolineato che agli organi di informazione di massa il racconto sul lavoro capillare di territorializzazione del progetto non interessa, quello che prevale è la cronaca della conflittualità.

Ci può parlare più nello specifico dell’ultimo progetto approvato, definito «low-cost»?
Nel quadro del progetto preliminare complessivo da Torino a Lione (270 km) si sono individuate delle priorità: il progetto, chiamato giornalisticamente «low-cost», da Susa a Saint- Jean de Maurienne con il tunnel di base di 57 km (45 in Francia, 12 in Italia) e un costo di 8,2 miliardi (di cui 2,8 a carico dell’Italia). Abbiamo lavorato perché il Cipe recepisse le opzioni di fasaggio del progetto per cui, prima si realizzerà l’opera che determina il salto di qualità (cioè il tunnel che trasforma una linea di montagna in una linea di pianura, con il nodo di Susa e il nodo di Saint – Jean de Maurienne) e poi si affronteranno gli altri aspetti secondo le effettive necessità nel tempo. Il progetto è misto e utilizza, come chiedevano i sindaci No Tav, la linea storica per 25 km da Avigliana a Bussoleno, fino a una soglia massima di 218 treni/giorno. Da Bussoleno, dove oggi inizia la tratta di montagna che deve superare 900 m di dislivello attraverso una galleria del 1871, si andrà sulla linea nuova. L’altra grande conquista è la Stazione internazionale di Susa che mette il territorio sulla rete primaria europea e darà alla valle un’opportunità turistica tutta da gestire. Ci siamo battuti perché il progetto della Stazione nascesse da un concorso internazionale di architettura, anche se questo ha voluto dire sottrarre una parte di incarico ai progettisti assegnatari. A fine  giugno i cinque raggruppamenti internazionali selezionati presenteranno il progetto preliminare; a settembre annunceremo il vincitore che entro fine anno presenterà il definitivo. Il Cipe poi, su nostra indicazione, ha posto come vincolo la realizzazione di un centro informativo permanente sulla Torino – Lione, da collocare nell’ex-caserma Henry sulla piazza del mercato di Susa; questa sarà anche la sede espositiva dei progetti e delle opere, per tutta la durata dei lavori del cantiere.

Per quanto riguarda le «compensazioni» come avete agito?
Ho sempre sostenuto che la logica delle compensazioni come mercato delle indulgenze ambientali (quanto fa per il disturbo?) sia concettualmente sbagliata, oltre a non funzionare. Ma abbiamo, al momento, una legislazione che prevede di dedicare il 5% dell’importo d’opere alle compensazioni. Abbiamo quindi scelto di utilizzare le risorse della legge Obiettivo del 2001 come fondo per un progetto unitario di sviluppo del territorio, in parallelo alla realizzazione dell’opera. Quindi non una miriade di interventi con una logica specifica e mai coordinata, ma scelte strategiche condivise con il territorio. Chiaramente questa soluzione bisogna sperimentarla in concreto e dobbiamo dare indicazioni a breve su come spendere in valle i primi 10 milioni di euro (sui circa 140 complessivi).

Quali punti sono carenti nell’attuale legge Obiettivo per quanto riguarda la gestione del rapporto con il territorio?
La legge Obiettivo è ormai metabolizzata nella prassi politico-amministrativa come la legge delle opere grandi, medie e (persino) piccole che ambiscono ad avere una corsia preferenziale per le procedure e, soprattutto, per i finanziamenti. È scemato il carattere emergenziale e anti interdizione degli enti locali; c’è quindi una maggiore (positiva) fisiologicità nella sua applicazione, anche se la legge non affronta né tantomeno risolve il problema del rapporto corretto fra centro e periferia con le rispettive ragioni nell’ormai ineludibile intreccio fra globale e locale (glocal). Nella prassi applicativa emerge con evidenza l’incapacità della legge di garantire un’effettiva selezione delle priorità, ma questo è un difetto molto italiano che è difficile imputare solo (o principalmente) alla legge Obiettivo.

Per quel che riguarda le modalità di cantierizzazione come pensate di procedere? Qual è la previsione quantitativa di operai/tecnici che lavoreranno?
Le modalità di cantiere sono due: si interviene in aree già compromesse realizzando prima i binari, in modo che tutte le movimentazioni non avvengano su gomma; i cantieri non funzionano con il modello del «campo base»: gli operai (circa 2.000) non vivono e non mangiano nel cantiere ma nel tessuto ricettivo del territorio; nei 10 anni di durata del cantiere contiamo circa 10 milioni di pasti e 3,5 milioni di pernottamenti. Si ristruttureranno immobili ad hoc che verranno utilizzati per il periodo della cantierizzazione come residenze operaie e successivamente cedute a soggetti pubblici.

Questa è la previsione se saranno tutti addetti esterni alla valle? Non saranno le imprese che vinceranno gli appalti a scegliere le maestranze? Non è detto che ricorrano a quelle presenti sul territorio.
Premesso che non è possibile fare nulla in contrasto con le normative della libera concorrenza  abbiamo escluso la figura del general contractor privilegiando invece appalti integrati separati, scorporando dalle realizzazioni principali, che possono essere condotte da un numero limitato di imprese, tutte quelle attività, minoritarie sul piano dell’investimento generale ma rilevanti in valore assoluto, che possono essere svolte da imprese del territorio e non dall’appaltatore principale come la preparazione del cantiere, i sottoservizi, ecc. Introdurremo una serie di prescrizioni contrattuali, che è legittimo da parte del committente specificare nel bando di gara, al fine di tutelare le modalità di sub-appalto. L’impresa straniera che vince arriva certamente con il proprio top management ma cerca le maestranze dove è più conveniente; se si avvia preventivamente un processo di formazione mirata, per le varie categorie professionali del territorio, e se c’è un soggetto pubblico che propone un albo di operatori formati ad hoc secondo le esigenze del progetto e gli standard di qualità, le imprese troveranno conveniente accedere a quel bacino di forza lavoro comprendendone i vantaggi in termini di semplificazione nelle problematiche tecniche quotidiane di un cantiere. Questo atteggiamento in Francia ha funzionato e lo stiamo predisponendo in termini analoghi.

Rispetto al progetto per fasi di cui ci ha parlato, perché non è stato adottato il progetto Fare (Ferrovie Alpine Responsabili ed Efficienti), proposto nel 2008 da un gruppo tecnico esterno all’Osservatorio che già si basava su una logica incrementale?
Il progetto Fare è stato un contributo costruttivo indicando una realizzazione per fasi, ma l’opera sarebbe partita «al contrario»: dal nodo di Torino si sarebbe risaliti verso la montagna, lasciando come ultima opzione la realizzazione del tunnel di base. Del progetto Fare abbiamo accolto l’indicazione metodologica, ma non le priorità, anche perché non teneva conto, consapevolmente, del fatto che l’Europa non avrebbe messo un euro per finanziare una strategia di questo tipo e che la Francia non si sarebbe riconosciuta in una linea del genere: siccome i due terzi dell’opera sono in territorio francese, è difficile non tener conto della loro opinione.

Non era possibile usare la linea già ammodernata del Frejus di cui è stato abbassato il piano del ferro?
I lavori di ammodernamento del Frejus sono cominciati nel 2002 e sono finiti l’anno scorso anche se il tunnel non è tuttora agibile. Rende possibile il transito dei container dalle sagome PC45 (la tipologia più diffusa), ma con forti penalizzazioni di velocità e con l’impossibilità di far incrociare due treni liberamente. Certamente ci si può chiedere se aveva senso fare questa spesa per abbassare il piano del ferro al Fréjus e credo che l’interrogativo rimanga con tutta la sua pregnanza. Questo è un intervento finalizzato a non perdere l’intero traffico durante la cantierizzazione della Torino – Lione. Inoltre bisogna aver chiaro che questa linea del Frejus non è assolutamente in grado di garantire il futuro trasporto merci dei prossimi cinquanta, cento anni. Negli ultimi dieci anni i treni dovevano procedere a senso unico alternato su 14 km; a questo punto, scoprire che i traffici siano calati, è veramente una banalità.

Ma c’è una domanda in crescita?
I volumi di traffico sono pressoché costanti nell’ordine di 40 milioni di tonnellate all’anno nelle relazioni commerciali tra Italia e Francia. Giova ricordare che la Svizzera ha deciso di realizzare il Gottardo, con risorse proprie, quando su tutte le sue direttrici (gomma, ferro, ecc.) aveva poco più di 20 milioni di tonnellate. Noi ne abbiamo circa il doppio.

Quando parla di territorializzazione del progetto si riferisce più che a un progetto infrastrutturale quasi a un progetto alla scala architettonica, che fa emergere quindi gli elementi contestuali come decisivi. Sarebbe un cambio di paradigma e non solo in Italia. Come è stato recepito questo dai progettisti coinvolti?
Innanzitutto credo che si debba interrompere il meccanismo consolidato per cui la scala di intervento di un’opera come la nostra sia esclusivamente quella del km, tipica dell’opera infrastrutturale. Occuparsi di territorio vuol dire passare alla scala del metro, cioè a una diversa scala di attenzione; per esempio, nella tratta internazionale della Torino-Lione ciò significa passare da undici edifici residenziali da demolire a solo due (grazie agli affinamenti progettuali effettuati), oppure decidere di anticipare l’imbocco del tunnel di base attraverso una galleria artificiale di 130 m che permette di iniziare il cantiere al coperto, ovviando in parte al problema delle polveri, dei rumori e attenuandone l’effetto sul contesto.

Ma questo potrà «diventare la norma»?
Penso di si, ma ovviamente nella misura in cui tutta l’operazione si chiuderà con un successo; io sono fiducioso in tal senso anche per il valore simbolico che ha assunto la questione e per l’interesse nazionale. Se poi questo si collega alle volontà dichiarate dal ministro Corrado Passera di innovare gli aspetti normativi procedurali dei lavori pubblici inglobando in parte alcune di queste questioni la chance è ancora più forte.

Il Governo Monti ha difeso e rilanciato il progetto Tav con molta determinazione. Che cosa è cambiato? Lei è stato anche incaricato di lavorare a una riforma della normativa dei lavori pubblici sul modello francese che prevede una fase preliminare alla realizzazione delle grandi opere, di consultazione pubblica che vada ad attuare la cosiddetta «democrazia partecipativa». Su quali basi?
Quando si è insediato il nuovo governo la Torino-Lione è stata considerata parte integrante di una politica di sviluppo e non di una mera politica settoriale. Il ministro Passera ha espresso il desiderio di capitalizzare l’esperienza dell’Osservatorio per migliorare l’assetto normativo italiano. Così abbiamo prodotto un documento, frutto di riflessioni anche di Luigi Bobbio, Marianella Sclavi, David Lowe e Jean-Michel Fourniau che affronta cinque aspetti. Il primo riguarda la programmazione e la priorità, a livello nazionale, delle grandi opere. Occorre imbastire un modello in cui le decisioni prese da un governo vadano al di là del mandato elettorale, e in cui il quadro delle priorità non possa essere modificato senza passare attraverso giustificazioni e assunzione di responsabilità per il cambio di strategia. Il secondo riguarda l’opera specifica: introdurre il confronto con le amministrazioni locali, con il territorio e con gli stakeholder prima di fare il progetto e non dopo. È banale, ma in Italia questa pratica sarebbe una rivoluzione. Il terzo, trascuratissimo, riguarda la gestione dello sviluppo progettuale; il lavoro dell’Osservatorio, che ha «territorializzato» il progetto in questo senso è stato significativo. Il quarto è quello delle modalità di realizzazione e qui c’è tutta l’esperienza francese della Démarche Grand Chantier che stiamo cercando di mutuare nel nostro quadro normativo. In ultimo, il monitoraggio per un certo numero di anni e la verifica che il funzionamento e i benefici corrispondano alle previsioni.

«Sono decisamente pro ferrovia e anti trasporto su gomma»
Lei dice di non essere contrario a priori alla linea Torino-Lione, che cosa intende?
Sono coinvolto nella vicenda Torino-Lione dal 1992, inizialmente come semplice cittadino, successivamente come presidente e vice-presidente della Comunità Montana per complessivi sedici anni. Abbiamo fatto riunioni mensili con amministratori e comitati del movimento No Tav, per condividere alcune scelte. Per me la costruzione del processo decisionale passava anche attraverso quelle assemblee, che non decidono ma servono per ascoltare, per confrontarsi, per assorbire le preoccupazioni, le sensazioni, i dubbi. Sono favorevole al trasporto ferroviario e contrario al trasporto su gomma e ritengo che l’Italia dovrebbe dotarsi, come l’Austria o la Svizzera, di una politica di trasporto che utilizzi il ferro penalizzando il trasporto su gomma. La recente approvazione da parte della Regione dello studio per la trasformazione della galleria di sicurezza del Frejus (attualmente in cantiere) in una seconda canna, che di fatto consentirebbe di raddoppiare il tunnel autostradale, va invece nella direzione opposta. Questo sta accadendo nell’indifferenza più totale, sebbene le comunità coinvolte siano le stesse della Tav. Voglio però che sia chiaro che mantengo la mia fortissima criticità sulla Torino-Lione, ma dico anche che il tunnel geognostico di Chiomonte non è l’opera.

Che cosa pensa del ruolo dell’Osservatorio tecnico?
Da presidente della Comunità Montana lavorai alla nascita di un gruppo di lavoro che mettesse in campo le argomentazioni tecniche di tutti i soggetti e così nacque l’Osservatorio Rivalta, che funzionò per circa un anno, fino a quando si comprese che doveva avere una dimensione diversa con il coinvolgimento del Governo. All’inizio ha avuto un ruolo importantissimo, facendo chiarezza su quelle che erano posizioni assolutamente veicolate dalla politica senza nessun fondamento tecnico-scientifico, come la saturazione della linea storica e l’aumento dei traffici. Nel vertice di Pra Catinat del giugno 2008, si fece la sintesi dei primi due anni di lavoro dell’Osservatorio e il mio giudizio è altamente positivo. Negli ultimi anni però, a fronte delle numerose riunioni, non sembrava che il Governo volesse accelerare il processo, per cui si è continuato con una serie di proposte per arrivare all’ultima definita low-cost che parte dal tunnel di base, un po’ in contrasto con quanto affermato nel secondo quaderno dell’Osservatorio, dove si dice esplicitamente che le priorità sono il nodo di Torino, le linee di bassa valle e il valico.

Prima di arrivare all’attuale progetto per fasi «low-cost» la Comunità Montana aveva proposto all’Osservatorio un progetto incrementale, denominato Fare. Come è stato accolto?
Iniziammo a elaborare questa proposta a fine 2007, e continuo a ritenerla «la soluzione». Visto che non eravamo più credibili come oppositori capaci solo di dire no, abbiamo deciso di mettere in campo una proposta alternativa. Ci siamo affidati a dei tecnici e partendo dai dati forniti dai primi quaderni dell’Osservatorio abbiamo elaborato una proposta che partiva dalla strozzatura del nodo di Torino per ripensare il servizio metropolitano ferroviario, e poi a seconda delle necessità saremmo andati a ritroso fino a considerare fra trent’anni l’opportunità di fare il tunnel di base. Questo lasciava anche la possibilità di ripensare a livello nazionale a politiche organizzative verso l’intermodalità dei trasporti gomma-ferro. Parte del movimento No Tav e alcuni amministratori e consiglieri di minoranza si opposero perché nella nostra proposta c’era il tunnel di base, anche se dilazionato nel tempo e posto come eventualità. Come amministratori ne uscimmo indeboliti e divisi agli occhi dell’opinione pubblica.

Quando l’Osservatorio è stato più ricettivo?
Paradossalmente durante il secondo governo Berlusconi. Alla Regione c’era il centro-sinistra, il governo nazionale di centro destra e l’Osservatorio rappresentava il collegamento. Quindi in quel periodo il ruolo di Virano e dell’Osservatorio è stato molto forte. Non è assolutamente vero che l’Osservatorio ha escluso le comunità, la verità è che a un certo punto una parte del territorio ha ritenuto di escludersi dal confronto, perchè ha ritenuto che partecipare volesse dire essere d’accordo sulla Torino- Lione.

Forse per non essere complici di decisioni già prese…
Come amministratori, bisogna sempre cercare di partecipare e portare le proprie argomentazioni, invece a un certo punto il movimento No Tav è diventato assolutamente autoreferenziale.

All’inizio del processo erano state prospettate delle compensazioni?
Abbiamo sempre rifiutato il termine compensazione per come è inteso nella legge Obiettivo e nel decreto di attuazione n. 190, per cui il 5% dell’importo opere va a compensare il territorio. In questo modo si parte dal presupposto che si sta per fare un danno e quindi si cerca di controbilanciare. La migliore compensazione possibile è l’opera stessa. Sono tutt’ora convinto che la legge Obbiettivo sia assolutamente inutile laddove c’è un conflitto sociale. Nel caso della Val Susa, la nuovo linea poteva essere l’occasione di ripensare, riorganizzare e ricucire un territorio già diviso dalla linea ferroviaria attuale. Ma se la compensazione è una miriade di interventi fatti su singole richieste dei sindaci che hanno la prospettiva del loro mandato, questo porta a non avere una visione strategica del territorio. Preferisco invece parlare di ricadute; come Provincia abbiamo presentato un piano strategico da 1,4 miliardi di euro al governo Berlusconi che l’ha fatto proprio come uno dei 32 progetti strategici del paese. Il piano raccoglie misure di sistema e prefigura lo sviluppo del territorio per i prossimi decenni; a questo si aggiunge anche l’economia di cantiere, che non vuol dire solo vitto e alloggio per le maestranze ma anche forniture di mezzi, manodopera e materiali.

Ma questo come può diventare una pratica? Il problema è sempre passare dal caso specifico in cui c’è un mediatore politico e quello generale.
Per questo c’è la legge regionale 4/2001, che però dà soltanto degli indirizzi pur  innestandosi sul concetto già esistente in Francia della Démarche Grand Chantier, anche se lì è molto più cogente, perché la normativa francese prevede proprio di avvalersi di ditte locali.

Come sono avvenute le procedure di acquisizione dei terreni per iniziare il cantiere?
Solitamente gli espropri si fanno con la procedura ordinaria prevista dalla legge 241. Considerando la situazione e il fatto che in Val Susa la proprietà è molto frazionata con lotti di 50/100 metri, per attuare le procedure espropriative in sicurezza il prefetto ha deciso di recintare preventivamente le aree e poi ha invitato i singoli proprietari a presentarsi sul posto con il proprio legale. Si è deciso di attuare una procedura ordinaria in condizioni straordinarie.

«Hanno sbagliato i conti, il traffico cala»
Che cosa pensa dell’ultimo progetto «low-cost»?
Intanto non esiste: si comincia a fare la tratta centrale e le due stazioni con qualche adattamento sul nodo di Torino, però l’innesto di una nuova linea su quella storica ha problematiche di progettazione. I disegni e i calcoli non ci sono. In tutta questa vicenda la cosa più rilevante è la mancanza della struttura tecnico-logica: bisogna motivare l’iter procedurale in maniera adeguata. Bisogna fare modelli di calcolo, previsioni e dimostrare a cosa serve l’opera, poi si può passare alla progettazione tecnica. Siamo in presenza di alcuni documenti progettuali, fatti da Ltf, che riguardano il tunnel di base, ma non ci sono motivazioni razionali e scientifiche validate. Inoltre tutti gli studi non presentano mai il processo e le fonti per capire come si è arrivati alle conclusioni. Il low cost è insensato anche dal punto di vista trasportistico: si progetta una tratta che è in grado di portare 100 milioni di tonnellate l’anno ma la portata della linea rimane quella a valle e a monte, cioè molto meno di 30 milioni di tonnellate all’anno. Sul nodo di Torino non c’è nulla: è possibile che nel 2023 ci sia il tunnel di base ma non il sottoattraversamento di Torino.

I modelli erano stati impostati però su tre scenari diversi…
Non cambia niente se l’ipotesi di fondo è la crescita. L’andamento dell’economia richiede analisi più approfondite. Io non credo che il prossimo anno ci sarà la ripresa, e immaginare che nei prossimi 40 anni ci sarà una crescita esponenziale del prodotto interno lordo europeo e delle tonnellate trasportate è razionalmente infondato.

Magari il ragionamento è valido adesso, ma 5/10 anni fa non era così.
Cinque anni fa la ferrovia stava già calando. Sulla frontiera italo-francese, sommando strada e rotaia dal Monte Bianco fino a Ventimiglia, passano circa 40 milioni di tonnellate di merci (un terzo di tutte quelle che attraversano le Alpi) che dal 2001 sono in calo: in Europa i mercati sono saturi, i flussi che non saturano sono quelli che hanno come terminale India e Cina e, in prospettiva, l’area del Golfo Persico e il Nord Africa, cioè quelli che sul continente europeo si muovono in prevalenza da Sud a Nord.

Però in Svizzera ce ne sono 20 e hanno deciso di scommettere comunque…
La «scommessa» è un termine molto ideologico. In Svizzera, paese di transito che soffocava sotto i camion, hanno agito seguendo un processo pragmatico condivisibile: sono partiti nel 2000/2002, ma prima di fare il tunnel hanno tassato l’autostrada, preso provvedimenti normativi e adeguato la linea ferroviaria. Hanno fatto delle politiche precise, quattro referendum e ipotizzato di validare due tunnel di base, il Loetschberg e il San Gottardo. Ma, a dispetto di tutto, anche lì, la ferrovia cresce ma la strada è in ripresa e cresce anch’essa. Il valico alpino più transitato di tutti è alla frontiera con l’Austria, il Brennero.

Quindi il problema sono sia le ipotesi sia la procedura utilizzata in Italia.
Il modello fatto è anche corretto dal punto di vista formale  ma parte da ipotesi errate perché la media europea di crescita del Pil, del 2% annuo, non sembra proprio corrispondere alla realtà. In più, si assume che per ogni punto percentuale di crescita del Pil, la quantità di traffico in tonnellate cresca di 1,7 punti (nel 2006 il modello assumeva 1,4/1,5 e, fatti i conti economici, si aveva un saldo negativo), ma questo non ha riscontro nelle osservazioni. Fatto ancora più importante è che l’Unione europea ha posto tra i suoi obiettivi il decoupling, ossia lo svincolamento del Pil dall’andamento dei traffici materiali, che non sono i soli a influenzare il benessere: non si può fare una previsione a quarant’anni assumendo solo come parametri un accoppiamento rigido e un moltiplicatore.
Se il Governo vuole fare una grande opera si deve sostanziare oltre che con i numeri anche con una consultazione, che vuol dire sottoporre l’idea a un’analisi scientifica da parte di un contesto indipendente che la valuti.

Chi dovrebbe essere questo organismo indipendente?
Potrebbero essere le Università nel loro insieme, anche se in Italia non è accettata l’idea che lo Stato abbia organi scientifici che accertino le cose.

Avrebbe potuto essere l’Osservatorio?
In teoria sì, in pratica no. Ho fatto parte dell’Osservatorio fino al 2009 come rappresentante della Comunità Montana poi esclusa dai lavori perché considerata priva dei requisiti di rappresentanza del territorio. (Comunicato stampa della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 8 gennaio 2010: «…la nuova Comunità Montana, con riferimento alla nuova linea Torino-Lione non si connota con un profilo di sensibilità politico-istituzionale idoneo a rappresentare il pluralismo delle comunità locali presenti sul territorio»). Fin dall’inizio, si dovevano vagliare tutte le ipotesi, inclusa l’ipotesi di non fare il tunnel che in realtà non è mai stata considerata. Tant’è che io e l’ingegnere Andrea De Bernardi avevamo presentato l’ipotesi Fare: un’analisi del percorso evidenziava due strozzature, Chambery, la più stretta, e Torino. In caso di incremento di traffico, la prima cosa da fare era lavorare su queste per poi spostarsi verso il valico, che rimaneva l’ultimo intervento nell’eventualità che il traffico crescesse davvero in maniera strabiliante.

La Francia però non si riconosceva nel progetto e i fondi europei non sarebbero arrivati.
Il documento italo-francese di gennaio, sulla ripartizione dei costi tra Italia e Francia, non riguarda la realizzazione dell’opera. Il finanziamento per l’eventuale tunnel di base verrà definito nel momento in cui si saprà quanto erogherà l’Europa (articolo 1 del titolo I dell’Accordo tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica francese per la realizzazione  e l’esercizio di una linea ferroviaria Torino-Lione, gennaio 2012), che sta ipotizzando dieci corridoi prioritari e opere particolari su un fondo a oggi di circa trenta miliardi per una trentina di opere. Il tutto considerando che la politica continentale si muove verso investimenti nei paesi dell’est che hanno maggiori atout e che l’Italia prenderebbe in prestito i soldi da banche che farebbero un grossissimo affare.

Quindi la linea storica potrebbe reggere? Ci sono stati anche i lavori di ammodernamento del Frejus…
Si, con potenziamenti e adeguamenti, anche perché in tutta Europa, anche in Germania e in Francia, la ferrovia perde colpi sulla strada. Se dobbiamo giustificare la Torino-Lione dal punto di vista dei passeggeri dovremmo prendere a riferimento la Tokyo-Osaka, 400.000 al giorno. Sulla Torino-Lione siamo a 2-3.000. A sfavore di una nuova linea ci sono anche altre considerazioni: nel tunnel, ad esempio, la temperatura di roccia sarà di 45° C e richiederà un condizionamento che implica costi non indifferenti. Nel 2010 si sono conclusi i lavori per abbassare il piano delle rotaie nella galleria del Frejus per permettere il passaggio di container GB1 a standard europeo, ma nello stesso tempo si ha difficoltà a trasportare le merci da Genova perché le linee a monte della città non li reggono. Se il trasporto ferroviario è una priorità assoluta, l’Italia dovrebbe preoccuparsi innanzi tutto di mettere a posto il resto della rete ferroviaria. L’Av in Italia è in perdita perché non ci sono flussi di passeggeri sufficienti. L’Italia non è fatta «ad assi» ma «a reti» con l’80% di viaggi sotto i 100 km. La Torino-Milano ha 12 treni al giorno con una capacità di più di 300: è in perdita e non passa un grammo di merce, anche se doveva essere una linea mista.

Autore

About Author

(Visited 205 times, 1 visits today)
Share
Last modified: 8 Luglio 2015