A volte fa effetto notare come un edificio non ancora ultimato possa suscitare un interesse, addirittura un entusiasmo, che viene meno quando il lavoro è completo. A cinque anni dalla mia recensione, sempre per questo Giornale, del Denver Art Museum progettato dallo studio di Daniel Libeskind, quando alcune travi dacciaio a vista si sovrapponevano conferendo ancora energia al cantiere frenetico, trovo solo un mucchio di forme esplose in maniera stravagante, insulsamente avvolte in un cartone marrone trapuntato (o è titanio?) senza motivo apparente se non costosa vanità. Quando ho chiesto al tassista, uno studente di fisica etiope, di portarmi al museo, lui non ricordava come fosse fatto. Al mio provocatorio «ledificio strampalato», lui ha subito risposto: «Ah, sì, quello che sta per crollare?». In effetti la mia prima sensazione è stata quella di una struttura che, nel migliore dei casi, evocava lo schianto di un aereo a opera di Roy Lichtenstein. Le travi vibranti che trasudavano un senso di solidità tettonica e di virtuosismo erano sparite. Erano spariti anche i sensazionali effetti di luce, soppiantati da una fitta oscurità cavernosa (con leccezione della scalinata monumentale e dei suoi lucernari stridenti) che collega latrio buio al piano superiore altrettanto buio. In tutta onestà, la totale assenza di luce naturale nellintero edificio non è opera di Libeskind, poiché i rappresentanti del museo gli hanno fatto chiudere ogni fonte di luce naturale negli spazi espositivi. Eppure, con meno esibizionismo e più attenzione a unelegante e inoffensiva modulazione della luce esterna, sarebbe stato possibile trovare soluzioni intelligenti.
Durante la visita si è rivelata problematica anche la distribuzione funzionale degli spazi. Dopo unaccurata analisi, le autorità del museo hanno stabilito che i visitatori (saliti a una media di 575.000 allanno contro i 450.000 prima dellampliamento) ignoravano il negozio di souvenir perché nascosto sotto le scale nellatrio buio. Peggio, il punto in cui il negozio avrebbe ricevuto il massimo delle attenzioni sembrava essere un enorme spazio vuoto adiacente allingresso. Occorreva coinvolgere nuovi architetti. Come ha scritto un visitatore nel registro del museo: «Gli angoli disorientano. Ho perso i miei familiari: è stato difficile ritrovarli».
I problemi che gli stessi artisti e curatori hanno riscontrato con i chiassosi angoli e le inclinazioni delle pareti hanno indotto nel 2008 il nuovo direttore tedesco Christoph Heinreich a premere il pulsante del «reset». Per farlo ha escogitato una spiritosa mostra in cui diciassette artisti provenienti da tutto il mondo dovevano creare opere che rispondessero direttamente allarchitettura delledificio. Lanno dopo cè quindi stata una seconda inaugurazione.
La manutenzione? «Be, sapevamo che sarebbe stata costosa, ma labbiamo scelto noi…» A dire il vero ci sono state delle perdite in alcune pieghe del tetto, una bella seccatura per un edificio costato quasi il doppio di quanto richiederebbe un museo dignitoso con uno spazio espositivo simile. La direzione, alla ricerca dell«effetto Bilbao» per il suo museo fin dagli anni novanta, ha avuto quello che voleva.
Eppure, per quel che vale, in città il museo si è conquistato lo status di icona pop. È assediato dalle richieste di usare latrio per matrimoni e anniversari, feste di compleanno e servizi fotografici. «È uno dei nuovi gioiellini di Denver», ha scritto un quotidiano locale dopo la prima inaugurazione.
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