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Danilo Udovicki-SelbWritten by: Progetti

Surreale: è un bunker «Dalírante»!

Saint Petersburg (Florida). Ufficialmente inaugurato in puro stile surrealista alle ore 11,11 dell’11-1-11 dalla principessa Cristina, duchessa di Palma di Maiorca, nella tropicale Saint Petersburg in Florida, il nuovo Museo Salvador Dalí, disegnato da Yann Weymouth, dello studio Hok (già collaboratore di Ieoh Ming Pei per la parigina piramide del Louvre), per un costo di 23 milioni di euro, ospita su una superficie di 6.317 mq la collezione più completa al mondo delle opere dell’artista fuori dalla Spagna. All’inaugurazione, un uomo con un ampio cappello a forma di chiocciola ha guidato una parata di tamburini seguiti da una schiera di pirati accanto al mare lucente e alle palme palpitanti, mentre nell’aria svolazzavano parrocchetti di un verde smagliante. Fino a quel giorno glorioso, e sin dagli anni settanta, la collezione era conservata in un museo dove ha avuto una vita travagliata. Come ci raccontano i curatori, nel vecchio museo (una struttura assai fragile) l’opera di Dalí doveva essere spostata in fretta e furia in un luogo più sicuro ogni volta che c’era la minaccia di una violenta tempesta, evento non raro in questa zona caraibica della Florida. Si può facilmente immaginare il caos, il personale del museo correre al riparo con i dipinti portati a braccia sotto un cielo minaccioso, un pandemonio che forse il pittore surrealista avrebbe apprezzato.
Ora, per fortuna (o purtroppo), la collezione è al sicuro nella sua nuova dimora a forma di bunker di cemento squarciato da una colata lavica di vetro che si riversa a terra intorno al museo, imitando un paesaggio dilatato dell’artista. L’architetto ha bizzarramente chiamato «Enigma» la cupola di «lava»; nome forse più adatto al silenzioso De Chirico che al chiassoso Dalí (pur essendo stato preso a prestito da un suo dipinto del 1929). Nel blocco di cemento, a dominare la sala centrale turbinando fino alla cupola di vetro «fuso» in cima, una struttura gigantesca a forma di spirale di Dna (Dalí le amava) parte come una scalinata e termina, poco prima di toccare l’«Enigma», come un paio di baffi di cemento, immediatamente riconoscibili, che si assottigliano e si piegano.
È difficile trovare nel mondo, o se è per questo nella storia (forse con l’eccezione dell’opera dell’architetto «rivoluzionario» Jean-Jacques Lequeu nel diciottesimo secolo), un’«architettura parlante» più efficace se solo questo museo esuberante, destinato a perpetuare l’opera di Dalí, non parlasse così forte in suo nome da sostituirne la voce. Dopo essersi fatto strada nello spazio delirante, che rimbomba con un dubbio gusto, è legittimo chiedersi se il visitatore, travolto dall’ego dell’architetto e accecato dalla luce della cupola a cascata, abbia ancora un po’ di energia per cominciare a cercare l’arte che è andato a vedere, nascosta ed eclissata nelle remote pieghe del «bunker». Minacciata dalle tempeste nel vecchio museo, ora l’opera di Dalí è sommersa dall’architettura di quello nuovo. Si può essere o meno d’accordo con le stravaganze surrealiste dell’artista, ma l’architettura del museo che deve ospitarne l’opera non può avere la pretesa di sostituire la collezione con il proprio affronto alla Disneyland.
Se a Parigi Pei ha chiaramente copiato il progetto della piramide di vetro del 1929 di Ivan Leonidov per il Palazzo della cultura di Mosca, il suo ex assistente Weymouth l’ha trasformata in un incubo di cristallo, con il dovuto rispetto per l’audace innovazione ingegneristica della triangolazione geodetica (lanciata da Richard Buckminster Fuller) necessaria per realizzare la struttura.

Autore

  • Danilo Udovicki-Selb

    Laureato in Architettura e pianificazione all'Università di Belgrado, ha conseguito un master in Filosofia al Boston College e un dottorato in Storia, teoria e critica dell'architettura Massachusetts Institute of Technology. È docente associato presso la Austin School of Architecture dell'Università del Texas.Ha pubblicato molti contributi sugli anni 30 in Francia e Unione sovietica, in particolare sull'avanguardia architettonica russa, su Charlotte Perriand e Le Corbusier. La sua più recente pubblicazione ha riguardato la cura del volume “NARKOMIN: Moisej Ginzburg and Ignatij Milinis” (Ernst Wasmuth Verlag, Berlino). Attualmente, sta scrivendo un libro sulle avanguardie sovietiche nell'epoca staliniana. È corrispondente del Giornale dell’Architettura dal 2003.

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Last modified: 10 Luglio 2015