Ultima uscita della collana «I testimoni dellarchitettura», nata per documentare limpegno per la scrittura di progettisti (da Rafael Moneo a Giorgio Grassi), il libro di Elisabetta Vasumi Roveri la arricchisce concettualmente perché indaga a fondo un tema ineludibile di questo filone. Gli architetti, e ancor più i loro recensori, tendono a descrivere il rapporto tra testo e progetto come interdipendente e lineare: la riflessione teorica e critica sarebbe funzionale, il più delle volte, a descrivere e legittimare unopera. È uninterpretazione spesso non reale e, anche quando legittima, comunque semplicistica. Questa dipendenza si affianca infatti ad altri meccanismi, dallambizione intellettuale come occasione di posizionamento nella società fino alla costruzione della fama, tanto che «è lintero rapporto tra letture, scritture e pratiche che deve essere riconsiderato, così come è necessario ridiscutere il ruolo che hanno i testi nel definire lidentità della professione di architetto».
Su questo presupposto, principalmente, si costruisce la parafrasi che lautrice conduce attraverso una intrigante ricerca delle idee, delle fonti, delle scelte che stanno alla base de «Larchitettura della città (1966)». Il libro dedica un capitolo a ognuno di quelli del testo di Aldo Rossi, compresa lintroduzione programmatica Fatti urbani e teoria della città. Aggiunge poi due capitoli, in testa e in coda, dedicati il primo alla genesi del titolo, lultimo alla fortuna che il testo conobbe fino a raggiungere la condizione per cui «larchitettura della città non era più il titolo di un libro, ma un modo di studiare e intendere larchitettura in ogni parte del mondo». Quello della fortuna e della diffusione appare il nodo più determinante di tutta lanalisi, tanto che spiace leggerlo per ultimo: ci troviamo di fronte a un testo che, proprio mentre Rossi assumeva un atteggiamento sempre più autoriale e possessivo rispetto alla sua traiettoria professionale, ha conosciuto un progressivo allontanamento dal suo autore. A partire dalledizione del 1978 curata da Daniele Vitale, che «rivisita» il testo originario attraverso lintegrazione dellapparato di note e la revisione completa delliconografia, si generano letture e appropriazioni sempre più autonome, come quella americana pubblicata nel 1982 per Mit Press. Ben due introduzioni di Peter Eisenman esplicitano la necessità di una revisione, oltre che ancora una volta delle immagini, anche del testo: in virtù di una maggiore «chiarezza e semplicità», esso viene trascinato dentro il dibattito sull«architettura autonoma» che il gruppo statunitense «Oppositions» stava conducendo in quella stagione, senza ormai curarsi delle radici da cui il testo era nato, quasi ventanni prima.
Lo studio di Vasumi Roveri proviene da una tesi di dottorato presso il Politecnico di Torino. Ne deriva una definizione rigorosa del campo di analisi e dei materiali che lo documentano, metodologicamente preziosa di fronte a una scarsità di studi, nella storiografia architettonica, sugli scritti di progettisti. Questa scelta analitica e filologica risulta decisiva al momento di individuare, attraverso le fonti rossiane, gli elementi di novità di questo libro. Si spiega con estrema chiarezza come un autore poco più che trentenne abbia la capacità di lasciare i metodi di analisi urbana che apparivano allora prevalenti: da quello purovisibilista di Kevin Lynch a quelli semiologici, a quelli organici e biologisti. Tra salti concettuali sorprendenti e passaggi logici a volte oscuri, Rossi afferma la rivoluzionaria possibilità di leggere e descrivere la città in forma esaustiva attraverso la sua architettura, intesa sia come insieme permanente di fatti urbani che come forma complessiva.
Ciò che invece soffre dellapproccio di Vasumi è la possibilità di collocare «Larchitettura della città» in un confronto più ampio, trovando le ragioni di una stagione che vede apparire insieme più testi destinati a diventare «fondamentali»: solo nel 1966, oltre a quello di Rossi (nato nel 1931), sono pubblicati a cura di progettisti pressoché coetanei Complessità e contraddizione in architettura (di Robert Venturi, 1925) e Il territorio dellarchitettura (di Vittorio Gregotti, 1927). Convergenza che oggi ci impressiona, se è vero che quasi cinquantanni dopo, quando testi di questa natura non trovano più origine, essi appaiono ancora ineludibili nel dibattito sullarchitettura.
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