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Written by: Progetti

Lunga vita alla Biennale!

La Biennale di architettura di Venezia è forse sopravvissuta alla sua utilità? In quasi tutte le Biennali, a partire dal 1980, i curatori hanno detto di voler creare una mostra non tanto per gli architetti, quanto per il pubblico. Per Vittorio Gregotti, ad esempio, se si trattava di presentare l’architettura «la comunicazione con il pubblico era praticamente impossibile», ma poi, quando è diventato curatore delle prime mostre di architettura della Biennale prima della 1. Mostra internazionale di Architettura, ha detto: «Ho voluto dichiarare in modo chiaro e inequivocabile che la Biennale è aperta al pubblico, alla città di Venezia e ai non addetti ai lavori». Persino Paolo Portoghesi, curatore della nota mostra del 1980 «Strada Novissima» che si tenne all’Arsenale, sosteneva che l’architettura aveva perso la capacità di «parlare alla gente comune». Ma dietro la creazione delle sue facciate cinematografiche su entrambi i lati dell’Arsenale si trovava proprio questa mancanza di comunicatività. All’apertura della mostra, la stampa specializzata internazionale cala sulla Serenissima per due o tre giorni, criticandone l’elitarismo e l’assenza di legami con i reali problemi urbani del mondo. Se in parte questo riflette l’onnipresenza della comunicazione e delle immagini in rete, c’è anche la sensazione che sarebbe meglio spendere il denaro per risolvere questioni più urgenti, come la povertà e l’esigenza di pensare alloggi sociali accessibili. So per esperienza che allestire un padiglione nazionale in Biennale costa più di 400.000 dollari: sembra che quest’anno quello austriaco superi gli 800.000 dollari mentre i tedeschi, pur esponendo solo disegni, ne hanno sborsati comunque 650.000. Sommando padiglioni, Arsenale e Giardini, per non parlare di feste e biglietti aerei, si tratta di un affare da 20-30 milioni di dollari, un festeggiamento di due mesi sempre più appariscente. Le critiche alla Biennale spesso ruotano attorno al fatto che Arsenale e padiglioni nazionali mostrano opere che si potrebbero definire «arte» piuttosto che architettura. Eppure il problema di ogni mostra di architettura, nei musei o nelle gallerie, è: come si può esibire il frutto del lavoro degli architetti – disegni, prospetti e sezioni, persino rendering – senza annoiare il pubblico? Ironicamente, un modo per comunicare le idee architettoniche è la realizzazione di esposizioni che si potrebbero definire «installazioni artistiche». La strategia di solito consiste nel prendere un concetto architettonico, come «spazio», «esperienza» o addirittura l’idea di «comunicazione» di Portoghesi, e cercare di riprodurlo in un audace gesto teatrale. E questo è proprio ciò che è accaduto quest’anno all’Arsenale. Entrando nel grande edificio delle Corderie ci si trova di fronte una serie di installazioni: la nuvola del giapponese Tetsuo Kondo con gli ingegneri ambientali Transsolar, le enormi travi in equilibrio dell’architetto spagnolo Antón García-Abril e persino l’installazione di Olafur Eliasson, con spruzzi d’acqua catturati da tremule luci stroboscopiche. Tutte impiegano strategie diverse ben note alla Biennale d’arte, come i cambiamenti di scala (le travi di García-Abril), i teatrali trompe l’oeil (Eliasson) e le installazioni artistiche (la nuvola di Kondo). Mettendo da parte la pretesa che l’architettura abbia una sua noiosa e ipocrita sicurezza delle proprie
convinzioni solo quando affronta povertà e degrado ambientale, i progetti della Biennale di quest’anno hanno un forte impatto sugli spettatori. Quando l’architettura è esibita così, si perde però il legame con l’ambiente urbano che la contraddistingue. Troppo spesso ciò che resta non è architettura ma «design». L’aspetto importante della Biennale è che, a prescindere dalle singole opinioni su ruolo e significato dell’architettura nella società contemporanea, chiunque può trovare qualcosa da amare o da odiare, a ulteriore conferma del fatto che può esistere una mostra d’architettura incentrata su oggetti che parlano persino quando sono immersi nelle
crude esigenze della vita e della protesta urbana. Il catalogo del padiglione del Bahrain spiega che il paese sta svendendo la sua costa al miglior offerente, ma che gli abitanti si oppongono a questa tragedia costruendo baracche abusive sul litorale. Anche il padiglione degli Stati Uniti, che lega l’architettura ai problemi quotidiani della pratica contemporanea, la storia del kibbutz di Israele, l’installazione della Gran Bretagna e la piccola riproduzione della laguna veneta valgono la fatica di andare fino a Venezia. Ho molto apprezzato anche la montagna di gabbie per uccelli della Polonia, che permettono di arrampicarsi fino alla cima e saltare in un abisso nero di gommapiuma, aggiunte
degne di nota all’esperienza, alle sfide e al discorso sull’architettura. E a proposito di discorso, è un tratto tipico della Biennale che sedi come la bolla gonfiabile di raumlabor, le conferenze organizzate dalla rivista «Volume» al padiglione olandese e le soirée al Dark Side Club di Robert White diano ad architetti e media l’opportunità di discutere, lamentarsi e parlare dello stato della professione. Per gli architetti e i media, questa è una delle grandi doti della Biennale: incontrare
vecchi colleghi e voci importanti e conversare ad alto livello su ciò che hanno gradito o meno. Posso assicurarvi che il livello della discussione e del dialogo in Biennale supera di gran lunga quello di ogni altro convegno, fiera o esibizione del calendario internazionale di architettura e, tutto sommato, è ciò che la salva dalla frivolezza, rendendola degna di proseguire malgrado i costi.
Infine, se ricordate il colorato padiglione nomade a tenda che ogni ora si spostava in un punto diverso dei Giardini o il tubo giallo dell’Estonia che correva dal padiglione russo a quello tedesco (senza che loro lo sapessero)- scaltri progetti della Biennale del 2008 -, quest’anno dovete amare la partecipazione croata. Una mattina sono andato ad aspettare la chiatta-padiglione realizzata in Croazia per poter essere riutilizzata a ogni Biennale, ma non è mai arrivata perché non è riuscita ad attraccare vicino ai Giardini. È proprio per progetti come questo, concepiti da giovani architetti con budget limitati che per far parte del dibattito internazionale sull’architettura contano solo su creatività e passione, che si continua a tornare a Venezia ogni due anni. Lunga vita alla Biennale di architettura!

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Last modified: 14 Luglio 2015