Riceviamo e pubblichiamo una lettera in risposta alla recente polemica internazionale sull’architettura del ventennio in Italia
Questo scritto nasce come contributo al recente dibattito nato a seguito delle critiche mosse contro l’architettura italiana tra le due guerre mondiali. Per brevità, la visione è concentrata su due essenziali punti di osservazione.
Erroneamente etichettata come fascista, la cultura architettonica e artistica italiana fra le due guerre è stata nuovamente coinvolta in una recente polemica sulla stampa internazionale associandone superficialmente la sua immagine iconica, ignorando la complessità del fenomeno, a mero simbolo estetico di un’era da rimuovere.
Rimuovere. Su questo già ci sarebbe molto da scrivere. Il Consiglio d’Europa infatti ha valutato, indipendentemente dalle condizioni politiche e al di fuori di esse, come strategico l’impatto che l’architettura dei regimi totalitari ha avuto nella formazione del panorama culturale collettivo contemporaneo e per questo ha riconosciuto quale rotta culturale il percorso che tocca le maggiori opere dei regimi negli stati europei attraverso il progetto ATRIUM (Architecture of Totalitarian Regimes in Europe’s Urban Memory) che ormai da anni studia il fenomeno.
In difesa, se mai ce ne fosse ad oggi ancora bisogno, della dignità delle opere architettoniche nate entro quel drammatico momento storico, difficile e pieno di contraddizioni che in molte maniere ha contribuito ad influire sulle stesse gesta degli architetti che in quei frangenti operavano, è possibile, quantomeno portare l’attenzione su un particolare momento: il ruolo di una giovane generazione di architetti nella nascita di un linguaggio completamente autonomo italiano. L’idea di canonizzare e identificare le gesta del regime del ventennio con le sue opere costruite affonda nel principio del consenso, grazie alla comunicazione di massa per cui era stato istituito dal regime stesso un Ministero apposito, dedito alla promulgazione di ogni evento come conferma di una politica di successo in grado di dimostrarsi attraverso la concreta realizzazione di opere pubbliche. A tale motivo è servito il contributo, mediamente non completamente consapevole, degli architetti italiani del tempo. Soprattutto rilevante risulta quello portato della generazione dei più giovani, poco più che neo-laureati, supportati in qualche caso dalla generazione dei più maturi sulle maggiori riviste del tempo e, in alcuni sporadici casi come Firenze, nelle Università. Quei giovani architetti hanno creduto in uno dei maggiori abbagli promessi dal regime relativo alla riforma della città in senso moderno e prestato alla sua opera il loro entusiasmo. Il regime infatti, dopo il 1931, ne ha approfittato per impossessarsi di quelle idee facendole divenire sempre di più un’azione politica da orientare a proprio vantaggio concedendo in maniera misurata concorsi, incarichi e commesse su grandi temi in grado d’incidere un segno proprio sul panorama urbano italiano. Ma si deve proprio a questa giovanissima generazione di architetti la ricerca promossa fin dalla seconda metà degli anni Venti sulla condizione italiana, in relazione ai mutamenti portati dalle coeve avanguardie europee. Ad essa si deve la strutturazione codificata di un vocabolario entro cui esprimere il nuovo linguaggio del progetto d’architettura, influenzato sì dal funzionalismo europeo ma filtrato e rielaborato autonomamente attraverso l’uso di una metrica di misura e di proporzione legata ai parametri classici dell’architettura italiana, razionale. Proprio quel sistema compositivo, figlio di una serie di influenze, di superamenti di prassi precedenti, di rifiuto di un’imposizione accademica frutto di una prassi ormai esaurita grazie anche all’opera portata dalle avanguardie futuriste, di paralleli e rimandi in un dialogo con l’arte e con le sue riflessioni urbane, esprime la più poderosa innovazione linguistica nel campo della composizione architettonica italiana dopo la grande rivoluzione operata dal Rinascimento che possa dirsi autonoma ed autoctona.
È indubbio poi che quegli studi e quelle opere realizzate siano state la base cui parte dell’architettura del dopoguerra, non in Italia dove la ricostruzione aveva posto come obbligo il discostarsi dalle prassi del ventennio, abbia largamente attinto fino a tramandare ad oggi alcuni echi nella condizione contemporanea. Su tutti, Alvaro Siza a Lisbona ce lo rammenta.
Immagine di copertina: Giuseppe Terragni, Casa del fascio a Como (© Riccardo Renzi)
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architettura fascista
Last modified: 27 Ottobre 2017