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Michele RodaWritten by: Interviste

James Corner: riposizioniamo il nostro lavoro per affrontare l’inevitabilità del cambiamento

James Corner: riposizioniamo il nostro lavoro per affrontare l’inevitabilità del cambiamento

Colloquio a tutto tondo con il protagonista statunitense dell’architettura del paesaggio, titolare dello studio Field Operations: le scale del progetto, le sfide della formazione e dell’ambiente, gli esempi eccellenti e i progetti in corso (che coinvolgono Washington e la Casa Bianca…)

 

«Nel 2020, un bel disegno non è più sufficiente. Abbiamo bisogno di qualcosa in più. Dobbiamo fare di più, dobbiamo andare oltre, ricercando le condizioni perché i nostri progetti possano giocare ruoli più ampi nella trasformazione: dal punto di vista ecologico, ambientale, sociale, culturale e politico». James Corner, tra i grandi protagonisti dell’architettura del paesaggio contemporanea, ha chiuso la serie di lezioni del workshop Landscape Of[f] Limits (LOL), organizzato dal Politecnico di Milano. Lo abbiamo incontrato a margine del suo dialogo con Sara Protasoni (direttrice del workshop e coordinatrice del Master of Science in Sustainable Architecture and Landscape Design al Politecnico di Milano) e Valerio Morabito (docente nel workshop e collega di Corner alla Penn University): un’occasione per approfondire i temi sollecitati dall’iniziativa, supportata dal Giornale dell’Architettura con la media partnership. La conferenza di Corner (così come altri eventi e i materiali del workshop LOL) possono essere visualizzati e scaricati dal sito web dedicato.

Corner (nato nel 1961 nel Regno Unito; ritratto nella foto di copertina © PEDEN+MUNK) è fondatore e amministratore delegato di James Corner Field Operations, struttura professionale con sede a New York, San Francisco, Philadelphia, Londra e Shenzhen. Ha dedicato gli ultimi 30 anni di attività alla ricerca nel campo dell’architettura del paesaggio e dell’urbanistica, principalmente attraverso progetti urbani complessi e ad alta visibilità in tutto il mondo, nonché con l’insegnamento e la pubblicistica. Tra i più importanti progetti di aree urbane pubbliche ci sono la famosissima High Line di New York, il Navy Pier di Chicago, il Central Waterfront di Seattle, il South Park di Londra al Queen Elizabeth Olympic Park, il Victoria Dockside di Hong Kong e la nuova realtà urbana di Shenzhen, Qianhai, una città costiera per 3 milioni di persone. Corner è professore emerito di architettura del paesaggio e urbanistica presso la University of Pennsylvania School of Design. Fa parte del Consiglio dell’Urban Design Forum e del Comitato consultivo del governo di Shenzhen.

 

Il titolo della conferenza è “2020 Riposizionamento”. Quale messaggio porta?

Il 2020 sta ponendo alla civiltà umana moltissime sfide, in tutto il mondo: dal cambiamento climatico e dagli eventi meteorologici estremi all’instabilità, sociale e razziale, fino alle disuguaglianze economiche, alla pandemia Covid-19, ai cambiamenti politici e culturali alla scala globale. Possiamo dire che è davvero un annus horribilis! E per questo, come paesaggisti e urbanisti, abbiamo la necessità di riposizionare il nostro lavoro, andando oltre l’abbellimento e il progetto degli spazi collettivi, lavorando più intensamente con il clima, l’ambiente, l’ecologia, le comunità, l’identità politica e l’inclusione sociale. Dobbiamo ripensare al modo in cui agiamo, a come facciamo complessi progetti di trasformazione alla grande scala, integrandoli con la dimensione ecologica, portando i sistemi naturali nella città, dove i temi della giustizia sociale, dell’uguaglianza, della diversità e dell’inclusione devono essere in primo piano. Certamente abbiamo fatto, e stiamo facendo, molti progetti importanti, in stati e città diverse: sono pensati sia per la natura che per le persone, così che le comunità possano godere di nuove forme di spazio collettivo, usando la poetica dei materiali come fattore identitario delle trasformazioni. Sono molto soddisfatto di questi lavori ma penso anche che dobbiamo andare oltre nel processo di dare forma al mondo fisico.

 

In quale direzione?

Mi ispira moltissimo ciò che è successo nelle diverse società mondiali negli ultimi 20 anni. Un periodo caratterizzato da crescenti libertà, da società più aperte e liberali, e certamente da enormi progressi tecnologici sia nelle comunicazioni che nei media. Ma gli ultimi anni hanno iniziato a mostrare le sfide perché questi cambiamenti, tanto sollecitati, sono arrivati al punto di rottura. Pochi mesi fa il «New York Times» ha pubblicato un articolo particolarmente importante, Come abbiamo rotto il mondo, firmato da Thomas Friedman che ha scritto: negli ultimi 20 anni, abbiamo costantemente rimosso aree di transizione, artificiali e naturali, regolamenti e norme che forniscono resilienza e protezione e i grandi sistemi – ecologici, geopolitici o finanziari – sono andati sotto stress. Questo periodo si è aperto con l’11 settembre e l’attacco al World Trade Center. Poi abbiamo conosciuto la crisi finanziaria globale del 2008. Adesso la pandemia e, lungo tutto il periodo, le questioni legate ai cambiamenti climatici. Dobbiamo liberarci dall’ossessione per l’efficienza a breve termine ed iniziare a pensare alla complessità e ad una trasformazione positiva, che sia vigorosa e resiliente. Così l’ambito dell’architettura del paesaggio ha bisogno di ripensare le sue ambizioni generali e reindirizzare l’immaginazione e le capacità di progettazione per cercare di affrontare queste grandi sfide, a tutte le scale.

 

La cultura del progetto è pronta per questo passo?

Ripensare e riposizionare ciò che potremmo fare come architetti del paesaggio significa lavorare soprattutto su progetti molto grandi, su larga scala, oltre a mantenere un focus sui dettagli più minuti e sulle esperienze più piccole. È pianificazione e design, scienza e arte, ecologia e urbanistica, poesia e prosa, tutto allo stesso tempo – un nuovo modo di pensare, di lavorare e di agire nel mondo. Credo che la cultura del progetto abbia gli strumenti giusti per fare questo salto: i designer sono persone creative che pensano fuori dagli schemi, spingono per innovazione e cambiamento, concettualizzano, visualizzano, costruiscono dando forma a nuovi mondi. Quindi sì, siamo pronti: si tratta solo di lavorare con ancora maggiore efficacia, assumendosi più responsabilità.

 

L’architettura del paesaggio è uno strumento adatto per affrontare simili sfide?

Può esserlo perché interagisce con la complessità del mondo, è caratterizzata da un approccio interdisciplinare e utilizza la poetica dei materiali e dell’arte del fare. I nostri progetti devono affrontare la qualità estetica ma anche problemi concreti. Abbiamo clienti, abbiamo comunità. Dobbiamo quindi spiegare – in una dimensione politica – dove sono le sfide e le opportunità. I nostri progetti devono apparire come un’estensione logica e razionale del ragionamento che sta alla base del processo. Il mio invito agli studenti è di imparare a progettare, certamente, ma anche ad impostare il progetto su questioni reali, come mezzo per costruire un argomento legittimante del progetto stesso.

 

A proposito di studenti, a capo del Dipartimento di Paesaggio della Scuola di Architettura dell’Università della Pennsylvania, avete proposto un programma molto innovativo e attrattivo, integrando in maniera strategica ecologia e design. Quali prospettive ci sono per le scuole di architettura del paesaggio nel prossimo futuro? Come si potrebbero integrare i nuovi curricula per formare studenti dotati di forte immaginazione?

Penso che la formazione per diventare architetto paesaggista sia un percorso molto difficile. C’è così tanto da fare! Da un lato il materiale tecnico e scientifico: l’apprendimento dei sistemi naturali, dell’ecologia, dell’orticoltura, del suolo, della pianificazione e dell’ingegneria del sito, dei materiali, dei dettagli, dei disegni e della documentazione, dei nuovi software e dei media. D’altra parte c’è l’aspetto creativo e artistico: la concettualizzazione, l’immaginazione, la visualizzazione, il vedere attraverso il fare, il gesto della tecnica artigianale, la progettazione, l’esperienza poetica e le nuove visioni. È come la compresenza, nel cervello umano, di una parte analitica e descrittiva e di una artistica e proiettiva. Parallelamente c’è anche la sfida della cultura, il comprendere la storia del campo d’azione, le sue tante idee, le opere e i trattati, e quindi la capacità di pensare in modo critico, di concettualizzare e comunicare le direzioni, gli aspetti più rilevanti, le nuove possibilità e le visioni. Per qualsiasi profilo è una vera sfida riuscire a coprire tutte queste materie, e tuttavia un buon curriculum dovrebbe essere il più completo e rigoroso possibile, soprattutto per quanto riguarda la capacità di fare sintesi degli elementi in gioco. Senza questa gamma disciplinare e queste competenze, non possiamo affrontare adeguatamente le sfide di cui ho parlato relative al clima, alla società, all’urbanistica o all’identità dei luoghi.

 

Nella sovrabbondanza d’immagini della nostra epoca, sembra difficile perfino orientarsi, soprattutto per i giovani studenti. Quali sono i tre progetti o luoghi che dovrebbero essere visitati per avvicinarsi efficacemente ai temi del progetto contemporaneo di paesaggio?

Sicuramente l’esperienza diretta attraverso la scoperta personale è sempre più ricca e profonda che non il limitarsi alle immagini. Per l’ispirazione pura posso citare Central Park a New York, i tanti parchi e giardini dispersi nel tessuto di Londra, i giardini di Versailles, quelli di Stourhead in Inghilterra, così come i molti giardini storici giapponesi. Per le esperienze attuali la High Line e il Brooklyn Bridge Park a New York, il lungomare di Barcellona, a Singapore i giardini sulla baia e il Changi Jewel, oltre che moltissimi parchi fluviali-alluvionali e di nuovo sviluppo urbano in Cina. Ci sono talmente tanti esempi, storici e contemporanei, naturali e progettati, che è impossibile limitare gli esempi. Il mio invito è di visitare più che si può, aprendo occhi e sensi. Le esperienze del paesaggio sono molto profonde nell’animo umano: sono di lunga durata, ci arricchiscono e danno molta soddisfazione.

 

Per rafforzare questi consigli, davanti agli studenti del workshop LOL del Politecnico di Milano, sono state raccontate due esperienze di progetto. Rispetto alla prima, l’immagine simbolica è una foto recente del Golden Bridge di San Francisco circondato dagli incendi.

La Baia di San Francisco è luogo che pone sfide ambientali molto importanti. Sta già subendo gli effetti della crescita del livello del mare, ci sono fenomeni meteorologici estremi, inclusi siccità e incendi, ed è molto soggetto a terremoti e frane. È anche molto densamente abitato, con criticità rispetto ai trasporti, alla disponibilità di case a prezzo calmierato e alla crescita futura. Molte delle comunità più povere si trovano a vivere proprio nelle zone più vulnerabili. Nel 2019 abbiamo iniziato a ripensare tutta la baia, ricercando più natura, più connettività, più comunità. Abbiamo chiamato il progetto South Bay Sponge perché il nuovo paesaggio funziona esattamente come una grande spugna ecologica: è un paesaggio in grado di assorbire l’acqua, creando nuovi terreni per nuove forme più compatte di sviluppo urbano. La natura stessa diventa sistema ecologico e infrastruttura.

Il secondo progetto è il Tidal Basin di Washington [un programma di tutela e valorizzazione paesaggistica che coinvolge 4 studi, oltre a James Corner Field Operations: DLANDstudio, GGN, Hood Design Studio, Reed Hilderbrand; i progetti sono visibili, dal 21 ottobre, in un’esposizione virtuale al sito tidalbasinideaslab.org; n.d.r.]. In questo caso le immagini, affascinanti, ritraggono i principali monumenti politici statunitensi completamente circondati dall’acqua. Il livello del mare tende ad alzarsi e il fiume Potomac esonda più frequentemente, con impatti su Washington. È un fenomeno con conseguenze pesanti, anche dal punto di vista finanziario: le esondazioni costano miliardi di dollari in assicurazioni e in lavori di ripristino. Se non agiamo, nel 2060 l’intero Tidal Basin sarà uno specchio d’acqua. Così abbiamo progettato tre scenari alternativi: nel primo, che abbiamo chiamato Curate Entropia, lasciamo che la natura prenda il comando e costruiamo un percorso rialzato ad anello, dal quale osservare cosa può fare l’acqua occupando gli spazi. Nella seconda visione, Island Archipelago, costruiamo nuove isole per proteggere la terra e per controllare l’acqua. Nel terzo, Protect & Preserve, la natura viene limitata con una strategia per controllare l’acqua di piena nel canale così da consentire la conservazione di ciò che sta all’interno.

 

Architettura del paesaggio come reazione agli impatti del cambiamento climatico. Sembra paradossale presentare un progetto che tocca la Casa Bianca, in questi mesi.

Beh, non credo che Donald Trump sosterrà nessuno dei nostri lavori perché, semplicemente, sembra non voler essere informato. Come sapete, negli Stati Uniti c’è un forte dibattito addirittura sul fatto che il cambiamento climatico sia reale o meno, e i politici di destra sono molto scettici, per la loro fedeltà all’industria del petrolio e dei combustibili fossili. Ma nel nostro lavoro sul Tidal Basin la condizione è interessante, perché è l’incarico di un gruppo indipendente ecologista che vede i problemi causati dalle inondazioni come inevitabili e urgenti. Vogliono lavorare per rendere i politici più consapevoli dei rischi e delle sfide a lungo termine. Per questi motivi abbiamo realizzato schemi alternativi con scenari diversi, da poter comprendere attraverso sequenze d’immagini. Proprio l’immaginazione è uno strumento importante per il nostro lavoro, perché trasmette in maniera efficiente le tematiche. Sono occasioni per cogliere le possibilità e, forse, per aiutare a cambiare le mentalità.

 

Inevitabilità, suona come una parola chiave.

A Washington il tema è chiaro: un paesaggio paludoso è inevitabile. L’ambiente che vediamo oggi in Florida si sta spostando verso nord, estati e inverni diventano più caldi e più umidi. Tra 50 anni vivremo le trasformazioni nei sistemi ecologici e nelle specie animali e vegetali che popolano i diversi ambienti regionali. Sono consapevole del fatto che non sia semplice spiegare questa condizione, ma la natura sta cambiando, è un sistema dinamico, non una situazione statica: alcune specie e comunità entrano, altre escono. L’architettura del paesaggio è vista solitamente come una disciplina che cerca di mantenere lo status quo. Tuttavia, oggi abbiamo bisogno di un orizzonte completamente diverso e l’architettura del paesaggio lavora esattamente nella direzione di assorbire e di affrontare l’inevitabilità del cambiamento.

 

E così radicalità e provocazione sono buoni strumenti.

Forse non è questione di essere radicali; preferisco un aggettivo diverso: bold (coraggioso). Essere bold significa essere ambiziosi. Dobbiamo incoraggiare i giovani studenti a pensare fuori dagli schemi, in grande, a cercare di spingere alcune idee, innovative e sperimentali. Perché sono importanti come mezzo per concentrarci su ciò che è possibile.

 

La complessità delle questioni coinvolte in progetti di trasformazione su larga scala si riflette nella complessità delle strutture sociali, con tanti portatori d’interessi da coinvolgere nei processi. La partecipazione è il modo giusto per affrontare questa complessità? E come è possibile integrare la partecipazione con l’efficienza del processo stesso?

Lo spazio pubblico è essenzialmente uno spazio democratico; è giusto che una cittadinanza sia coinvolta nell’immaginare e nel plasmare gli spazi futuri della città. Dobbiamo chiedere alle persone quali sono le caratteristiche principali di un progetto che desiderano e quali quelle di un progetto che invece non vogliono. In ultima istanza sono loro che useranno lo spazio, anche molto tempo dopo che l’architetto se ne è andato. D’altra parte è importante che il progettista aiuti la cittadinanza locale a pensare fuori dagli schemi, ad esercitare la propria immaginazione. Non è una semplice questione di chiedere cosa vogliono le persone e poi semplicemente di fornirlo: è soprattutto un processo per aiutare le persone a pensare in grande, a raggiungere obiettivi più alti e ad immaginare possibilità alternative. Anche questo è un progetto, e richiede grandi capacità di comunicazione e visione.

 

Questo mondo in evoluzione vive oggi anche la pandemia. Come influisce sui nostri modi di pensare e progettare?

Enfatizza la necessità, nelle nostre città, di progettare spazi verdi più ampi perché offrono possibilità alle persone di uscire e di essere coinvolte nella natura. Sto parlando della dimensione perché penso davvero che, nonostante spazi più piccoli possano essere belli, c’è un limite critico. Penso a Londra o Parigi o New York: offrono ai cittadini grandi possibilità grazie alla loro rete di giardini e parchi enormi. È anche una questione d’investimenti che solo progetti di grandi dimensioni possono indurre. La pandemia sta rendendo più urgente che mai ripensare l’open space nelle nostre città, a come le integriamo con la natura e con le esperienze della natura. A come progettiamo e costruiamo ambienti resilienti, flessibili, ospitali e generosi.

 

Succede in tutto il mondo?

Lavoriamo in posti diversi, con differenti ecologie, climi, topografie, materialità, culture e sensazioni. Succede lo stesso negli Stati Uniti: disegnare paesaggi a Seattle è diverso dal farlo a New York, perché le culture locali sono diverse. Ciò avviene anche in Europa. Proprio perché gli architetti del paesaggio lavorano in molti luoghi, dobbiamo affinare la nostra capacità di ascoltare, di essere ricettivi alla cultura e all’ecologia locali, così da creare luoghi significativi radicati nel contesto. Ciò significa trascorrere tempo nel luogo, sperimentandolo fisicamente e quindi incontrare persone, mangiare con loro, capire chi sono questi cittadini, avvicinarsi il più possibile, capire che cosa vogliono, come vedono il mondo. Non dobbiamo mai presentarci con un progetto, magari fantastico, che però viene dal nulla. Sarebbe un atteggiamento arrogante e che porterebbe a un lavoro senza senso. Dobbiamo progettare partendo dalla consapevolezza del luogo. È operazione non sempre semplice, ma dobbiamo perseguirla, in modo ancora più intenso viste le sfide che questo 2020 ci sta ponendo.

 

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Autore

  • Michele Roda

    Nato nel 1978, vive e lavora a Como di cui apprezza la qualità del paesaggio, la tradizione del Moderno (anche quella svizzera, appena al di là di uno strano confine che resiste) e, soprattutto, la locale squadra di calcio (ma solo perché gioca le partite in uno stadio-capolavoro all’architettura novecentesca). Unisce l’attività professionale (dal 2005) come libero professionista e socio di una società di ingegneria (prevalentemente in Lombardia sui temi dell’housing sociale, dell’edilizia scolastica e della progettazione urbana) a un’intensa attività pubblicistica. È giornalista free-lance, racconta le tante implicazioni dei “fatti architettonici” su riviste e giornali di settore (su carta e on-line) e pubblica libri sui temi del progetto. Si tiene aggiornato svolgendo attività didattica e di ricerca al Politecnico di Milano (dove si è laureato in Architettura nel 2003), confrontandosi soprattutto con studenti internazionali. Così ha dovuto imparare (un po’) l’inglese, cosa che si rivela utilissima nei viaggi che fa, insieme anche alla figlia Matilde, alla ricerca delle mille dimensioni del nostro piccolo mondo globale

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Last modified: 21 Ottobre 2020