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Alessandro Colombo e Paola GarbuglioWritten by: Reviews

Video e laboratori scenografici alla Biennale: Arte batte Architettura

Video e laboratori scenografici alla Biennale: Arte batte Architettura

Anonimi e ideologici, gli allestimenti affidano i messaggi all’audiovideo, vero mattatore nella mostra principale e nelle partecipazioni nazionali

 

VENEZIA. Un grande evento come la Biennale di Architettura si può leggere anche attraverso il suo allestimento. Il modo di approcciare gli spazi, le tecniche messe in atto per comunicare, il disegno degli interni ed esterni, sono l’interfaccia più immediata ed evidente che il pubblico ha con la manifestazione da una parte, dall’altra restituiscono senza mentire la visione dei curatori. In questa edizione sembra evidente come i concetti che stanno alla base del Laboratorio del futuro abbiano influenzato in modo determinante l’allestimento degli spazi, ma non tanto determinandolo con precise caratteristiche, quanto mancando in una “regia” generale, probabilmente non ritenuta necessaria, e demandando l’efficacia della comunicazione al messaggio, alla parola scritta o video proiettata molto più che non alla concezione spaziale. Esaminiamo di seguito i due grandi momenti nei quali si articola la 18. Mostra Internazionale di Architettura.

 

La mostra centrale ai Giardini e all’Arsenale

Il processo di sostanziale sovrapposizione della Biennale di Architettura con la sorella maggiore d’Arte si ritrova puntualmente espresso anche negli allestimenti e nelle modalità di comunicazione. Al di là delle evidenze macroscopiche, la distribuzione degli spazi e le partizioni utilizzate nel 2022 alle Corderie dell’Arsenale nell’edizione curata da Cecilia Alemanni sono rimaste tali e quali quest’anno, l’Architettura sembra sempre più rinunciare a mostrare progetti, proposte, visione, in favore di rappresentazioni antropologiche, sociali, economiche e politiche che non vanno molto al di là dell’analisi, se non nell’enunciazione di processi riparatori e di dichiarazioni d’intenti. In questo senso l’allestimento perde addirittura i suoi autori – nel colophon generale non compare neanche la voce – e la resa spaziale assume i modi dell’installazione, peraltro già a lungo esplorati, e della resa grafica e, ancora meglio, multimediale, d’idee ed ideologie. Segno e significante sono sempre più sovrapposti con una chiara volontà che parte dal contenuto per dettare la forma: allestimento ideologico, potremmo dire.

Da questo punto di vista colpisce, e non positivamente, l’installazione di una tettoia fuori scala sul fronte del povero ex padiglione italiano ai Giardini, ora Padiglione centrale. È un manufatto enorme, luccicante di ferro e vernice, che vuole però simboleggiare una tettoia bucata di un paese caldo africano, raccontando una storia che cala sul delicato contesto veneziano a fronte di una force majeure, quella indicata dalla curatrice Lesley Lokko, che non sembra giustificata nei modi.

La mostra principale, il Laboratorio del futuro, si esplica come una rassegna di autori, practitioners il termine imperante, che più che progettisti appaiono come autori/artisti, ognuno collocato nel proprio spazio. Ai Giardini il Padiglione centrale è architettonicamente diviso in sale e, quindi, non è difficile dare ad ognuno il suo. Il problema nasce all’Arsenale, ove il superbo spazio delle Corderie eredita il layout del 2022 e viene affettato nella sua lunghezza in tanti spazi quanti ne servono, senza alcuna considerazione (vorremmo dire rispetto) per il luogo. In questo modo le aree (ma potremmo chiamarli stand) vedono apparire le possenti colonne come capita, a volte celate, a volte in vista, a far sparire lo spazio nella sua continuità e qualità.

La rassegna si apre e si chiude con aree circolari unite da frammenti del tutto eterogenei e, quando si trova un’area aperta semplicemente allestita come uno studio con tavoli, disegni e modelli illuminati con sempre eleganti Naska Loris a braccio (Flores & Prats Architects), si tira un respiro di sollievo e si riconoscono le amate Corderie. L’autore dell’identità grafica, Fred Swart, viene svelato e siamo così in grado di riconoscerli un progetto corretto che sceglie articolate didascalie a più altezze che disegnano piacevoli skyline sui muri.

Si nota la presenza costante del ritratto degli autori/autrici perché le installazioni devono avere un nome, una spiegazione, ma soprattutto un volto. Non sappiamo quanto questa scelta sia frutto di una volontà di completezza di comunicazione o per dare una precisa collocazione somatica. La scelta di grandi testi prespaziati in argento su fondi di vari colori si presenta spesso illeggibile e, francamente, irritante nel costringere il lettore a contorsionismi per spostarsi alla ricerca di un giusto riflesso che permetta l’intelligibilità. Piacevole è, invece, l’essere tornati a mettere prima testo italiano e poi quello inglese, crediamo dovuta nel caso del paese ospitante, ma forse anche da intendere come attenzione verso una minoranza linguistica.

Strabordante l’uso del multimediale. L’audiovideo, preferibilmente nelle sue forme video-proiettate e poi in grandi monitor, è adottato quasi come una prescrizione medica alla quale si obbedisce diligentemente. Forma di comunicazione principe, sembra che ogni tipo di allestimento, parete decorata, installazione spaziale, tessitura con nuovi materiali, e sperimentazioni microstrutturali, tutto debba essere cornice e sfondo per lo schermo/proiezione ipertecnologica che narra, fa narrare, illustra, immerge, stupisce, circonda. La crasi fra sensibilità ecologica, sostenibilità, riequilibrio politico, sociale, economico e l’utilizzo dei mezzi messi a disposizione dal discusso antropocene, è lampante.

 

I filoni d’oro dell’allestimento dei padiglioni nazionali

1. Audiovideo

I padiglioni certo raccontano storie molto più variegate, ma alcuni filoni sono ugualmente desumibili. Audiovideo, audiovideo, audiovideo, sembra di udire il suono riecheggiare in laguna. Alcuni esempi: la Serbia con un nastro video-proiettato percorribile dal pubblico che offre una piacevole esperienza di comunicazione, mentre la Turchia appende stole di proiezione a costruire uno spazio coinvolgente. Poco coinvolgente è, invece, il padiglione Italia pur totalmente affidato alla forza del video: dopo una prima metà volutamente vuota con uno schermo gigantesco che introduce il tema, la seconda metà vive per altri schermi corredati, piccole raccolte di materiali che dovrebbero raccontare dei progetti attivati. Vero che i progetti stanno altrove nel paese, ma forse bisognava porsi il problema di comunicarli meglio nell’ambizioso spazio dell’Arsenale. L’Egitto presenta il laboratorio del grande fiume Nilo con un efficace uso di video e grandi libri stampati. La Repubblica di Corea si affida alla dimensione del videogioco primordiale per coinvolgere lo spettatore in scenari che lui stesso sceglie in modo analogico. Una versione statica, la pura immagine che costruisce lo spazio, trova elegante compimento nello spazio dell’Argentina, che presenta un’elegante ed efficace teoria di tavoli luminosi con bellissime foto di acqua, cielo e natura.

 

2. La sindrome del laboratorio

Accanto all’imperante audiovideo, registriamo una notevole diffusione della sindrome del laboratorio. Come c’insegnavano una volta a scuola, ci vuole un luogo dove fare i lavoretti; e così è un fiorire di scaffalature, tavoli, sgabelli per improvvisare accampamenti che, all’interno dei padiglioni, permettano la succitata attività con intenti (ri)educativi. I risultati, come sempre, sono eterogenei. Si va dal preciso laboratorio della Germania, che ha collezionato i materiali usati nel 2022 catalogandoli per il riuso in due atelier (uno di falegnameria, uno di tappezzeria) per approdare al molto più poetico risultato dell’Olanda, che coniuga lavoro manuale con graphic novel old style sui muri a tutt’altezza, senza dimenticare il Giappone che, nel suo basement aperto al pubblico, arriva addirittura a distillare utilizzando le foglie degli alberi dei Giardini. Gli Stati Uniti mettono in scena un deposito di “nuovi materiali” derivati dal riciclo dei polimeri plastici, con un’attenzione quasi nulla allo spazio in favore del messaggio eco-tecnologico musealizzato. Laboratorio, ma di fisica tecnica, è quello del Bahrein che anche in questa edizione si presenta efficacemente: una grande teca ove modelli astratti di tipologie costruite urbane producono calore che, condensato sui vetri, viene raccolto in rivoletti d’acqua che alimentano oasi in miniatura collocate in un deserto modellistico. Laboratorio culinario/architettonico per la Spagna, collocato centralmente e rafforzato da installazioni video. Laboratorio atipico quello della Finlandia che, nella sempre affascinante architettura disegnata da Alvar Aalto nel 1956, rappresenta la morte dello sciacquone installando al vero una nuova tipologia di wc che ricorda molto le “ritirate” dei nostri avi.

 

3. L’approccio scenografico

L’approccio scenografico, teso a disegnare luoghi per performance, è meno utilizzato e, in questo, risiede la più grande differenza con l’Arte, soprattutto dell’ultima edizione. Il genere non è comunque privo di estimatori: la Francia realizza un teatro sferico ove i colloqui degli attori sulla scena proseguono con il pubblico nel camerino, attrezzato come un grande bodoir con tavolone di conversazione. Simile l’approccio della Gran Bretagna, che affida la comunicazione a un teatro multimediale che costringe il pubblico a sedersi su uno scomodo pianetto inclinato curvo e allestisce il resto del padiglione come una mostra d’arte. Al prezioso padiglione del Canada, progetto BBPR 1956, va in scena una sorta di cantiere/occupazione, tutta grafica all’esterno, manifesti e tavoli con opuscoli all’interno e compare pure una bomboletta spray rossa a disposizione per stencil di protesta. I Paesi Nordici, che posseggono uno dei più bei padiglioni che l’architettura moderna abbia mai prodotto, quello di Sverre Fehn, mettono in scena un mercatino sami fatto di tronchi-pelli-libri-manufatti vari che rafforza la nostra simpatia verso gli amici lapponi, ma non verso l’uso che hanno fatto degli spazi. L’Estonia si affida a una “scenografia vera” utilizzando un delizioso appartamento sul canale del Ponte dei sospiri all’uscita dell’Arsenale per raccontare storie domestiche. Il Messico costruisce un mezzo campo da pallacanestro, che vuole raccontare storie di inclusione sociale ma produce un rumoroso ambiente di palestra. L’Ucraina, orgogliosamente presente, affida a un telo scuro il coprire una realtà che comunque si manifesta nella sua crudezza senza rinunciare a un progetto per il futuro. La Santa Sede allestisce nell’abbazia di San Giorgio un orto per l’amicizia sociale, introdotto dalle sculture di Alvaro Siza, ove si apprezzano le intenzioni. L’Australia fa i conti con la propria storia facendo galleggiare su un letto di Eucaliptus una sagoma di architettura in tubo di rame, a rappresentare le molte Queenstown nazionali.  Nella Polonia i data prendono la forma di layer metallici colorati che configurano un reticolo percorribile non senza una dimensione ludica. Ma il premio della categoria va alla Lettonia, il cui piccolo padiglione è allestito come un supermercato dove i prodotti sugli scaffali sono sagomette di cartone che rappresentano i vari paesi nelle ultime edizioni con tanto di titolo e logo. Allo spettatore viene data una pallina antistress e il compito di scegliere i tre prodotti/paesi preferiti e, di conseguenza, imbucare con un plastico lancio la pallina nell’apposita bocca predisposta sulla sommità degli scaffali. Più facile a dirsi che a farsi, il pubblico verrà poi premiato con uno scontrino che riporta le preferenze espresse, mentre la pallina si raccoglierà ai piedi di ogni edizione e, fra sei mesi, permetterà di stendere una classifica che nessuno, neanche i curatori, sa bene a cosa porterà. Il premio va per la scenografia, per l’interattività umana, per l’assenza di tecnologia audiovideo, per la grafica che costruisce l’allestimento, e per il sorriso che l’attività ludica porta in Biennale.

 

Ma c’è anche l’architettura

Trattandosi di una Biennale di Architettura, qualche paese ha pur voluto mettere l’architettura al centro del discorso. Due o forse tre le tendenze. Quella meno scontata è di usare il contenitore stesso come argomento architettonico. Citiamo nuovamente il Giappone che, nella metà non laboratorio, racconta con eleganza ed efficacia il progetto del padiglione evocando un futuro passato. Svizzera e Venezuela sono i felici proprietari di due noti progetti di Bruno Giacometti e Carlo Scarpa e così la Confederazione senza confini, ma non troppo, abbatte una porzione di muro, smonta le cancellate ed espone nell’unico grande ambiente rimasto le piante dei due progetti originali stampate su un grande tappeto bianco, mentre la repubblica bolivariana presenta con un sistema espositivo semplice in cartone alveolare stampato il patrimonio della città universitaria di Caracas progettata da Carlos Raúl Villanueva. L’Austria usa il corpo architettonico del padiglione, disegnato da Josef Hoffmann, per lanciare il progetto di un ponte di collegamento con il tessuto urbano esterno di Sant’Elena. Progetto bocciato, rimane la costruzione dell’attacco del ponte con una bella X rossa a chiudere la passerella abortita. La Russia, volente o nolente, presenta il proprio padiglione, recentemente restaurato, desolatamente chiuso.

Merce quasi rara l’utilizzo degli spazi per parlare di architettura, città, territorio. Lo fa il Brasile che nel padiglione, disegnato nel 1964 da Amerigo Marchesin, stende un letto di terra compatta che rende evidente il titolo Terra/Earth: il futuro è ancestrale, e vale il Leone d’Oro 2023. Con grande efficacia la Grecia parla delle proprie risorse idriche, naturali e artificiali, rappresentandole su una grande isola centrale con modelli in cartone ondulato e un’elegante grafica alle pareti. La Danimarca illustra efficacemente la tematica delle proprie città costiere e convince più con la qualità della cartografia che con la forza dell’installazione multimediale. La Cina si affida ad una teoria di tubi luminosi, bianchi e rossi, per presentare progetti di rinnovamento urbano e rurale, mentre Taiwan offre una sezione sulle 14 tipologie climatiche del paese come studio del rinnovamento della pratica architettonica grazie alla tecnologia. Israele offre una raffinata lettura del proprio padiglione murato – progetto di Zeev Rechter, 1952 – che rimanda alle architetture tecniche ugualmente chiuse, ma ora desuete, rappresentate con raffinati modelli in microcemento collocati nel patio retrostante per riflettere sulle rivoluzioni tecnologiche in atto. Il Padiglione Venezia ridisegna un’attuale veduta prospettica di Jacopo de’ Barbari per presentare i nuovi progetti legati da un filo attivi in laguna e dintorni. Il Kuwait avvia il processo di riconsiderazione della propria struttura urbana e territoriale nel magico spazio dei Magazzini del sale utilizzando dei teli bianchi appesi che solcano sinuosamente lo spazio offrendo la superficie per eleganti disegni su lucido, a dimostrare che l’Architettura si può fare. E si può mostrare.

 

Immagine di copertina: Partecipazione di Grandezza Studio alle Corderie dell’Arsenale (foto di Fabio Oggero)

 

A seguire, nelle foto di Alessandro Colombo, un percorso tra gli allestimenti

 

 

Autore

  • Alessandro Colombo e Paola Garbuglio

    ALESSANDRO COLOMBO nasce a Milano. Dopo gli studi classici e musicali si laurea in architettura al Politecnico di Milano nel 1987 con Marco Zanuso. Nel 1989 inizia il sodalizio con Pierluigi Cerri presso la Gregotti Associati. Con Bruno Morassutti partecipa a concorsi internazionali di architettura. Nel 1996 cura, con Pierluigi Cerri, il disegno di Palazzo Marino alla Scala a Milano per Trussardi e nel 1998 il progetto degli spazi pubblici e delle strutture di Expo ‘98 a Lisbona. È socio fondatore di Studio Cerri & Associati e di Studio Cerri Associati Engineering. Nel 2004 vince il concorso internazionale per la Villa Reale di Monza e il compasso d’oro con Naòs System, Unifor. È docente a contratto presso il Politecnico di Milano e presso il Master in Exhibition Design IDEA, di cui è membro del board. Su incarico del Politecnico di Milano cura il progetto per il Coffee Cluster, Expo 2015 Milano. PAOLA GARBUGLIO nasce a Milano. Completati gli studi classici si laurea in architettura al Politecnico di Milano sotto la guida di Marco Zanuso. Nel 1989 incomincia una collaborazione di dieci anni con la Gregotti Associati. Nel 1990, con Alessandro Colombo, vince il Major of Osaka City Prize indetto dalla Japan Design Foundation di Osaka con il progetto Terra: Instructions for Use. Nel 1994 conosce il maestro Gino Cosentino di cui diviene allieva ed amica e con il quale lavorerà fino al 2006 anno della sua morte. Nel 1999 fonda con Alessandro Colombo lo studio Terra, luogo d’incontro di arte, grafica, design e architettura. La sua produzione artistica degli ultimi anni comprende alcune centinaia di opere.

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Last modified: 25 Maggio 2023