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Sonia PaoneWritten by: Città e Territorio

Accoglienza non fa rima con architettura

Accoglienza non fa rima con architettura

Considerazioni sull’ospitalità dei migranti in Italia, in occasione dell’inaugurazione dell’Abitazione della Pace di Mario Cucinella Architects in Basilicata

 

SCANZANO JONICO (MATERA). È stata inaugurata il 24 maggio scorso l’Abitazione della Pace progettata e donata dallo studio Mario Cucinella Architects. Si tratta di un edificio inserito in un’area agricola, immerso nel verde e la cui copertura s’ispira alla morfologia delle ali delle farfalle, rappresentando così la rinascita.

Il progetto viene da lontano. Infatti, la struttura è stata voluta dalla Fondazione Città della Pace per i Bambini Basilicata con l’obiettivo di delineare una nuova prospettiva di sviluppo in un territorio che a inizio anni Duemila era stato scelto come sede del deposito nazionale di scorie nucleari, quindi come discarica. Progettata per l’accoglienza di famiglie di rifugiati, l’Abitazione della Pace è uno spazio di vita che si pone l’obiettivo di rovesciare l’immagine del vuoto e della sterilità associata alla discarica. Realizzata con il sostegno degli imprenditori Nicola Benedetto e Pasquale Natuzzi, la struttura accoglie già da novembre scorso i rifugiati del corridoio umanitario della Caritas in collaborazione con la Parrocchia della Santissima Annunziata, mentre nelle ultime settimane è stata inoltre messa a disposizione per ospitare profughi ucraini.

Il valore simbolico di questa architettura, che prova a risignificare un territorio promuovendo i valori della solidarietà e dell’integrazione, è altissimo. L’Abitazione della Pace rappresenta cioè un nuovo seme in un contesto, come quello dell’accoglienza dei migranti, in cui il progetto architettonico è praticamente assente.

 

L’Italia e i migranti

Nel nostro Paese i primi centri di accoglienza sono stati istituiti a fine anni novanta dalla legge Turco-Napolitano. Collocati in aree marginali e periferiche, in edifici abbandonati come ex ospedali, ex fabbriche e caserme, o composti da container e roulotte poggiati su aree ferroviarie e aeroportuali dismesse, si caratterizzavano per un estremo denudamento materiale e relazionale. I migranti erano letteralmente depositati senza nessun rapporto con il contesto locale e presi in carico solo dalle logiche dell’assistenza umanitaria.

Da allora non molto è cambiato, nonostante la maggior complessità del sistema di accoglienza che distingue fra prima e seconda accoglienza. Nella prima accoglienza rientrano le strutture di primo soccorso, identificazione e i centri per il rimpatrio per i soggetti che non hanno diritto alla richiesta di asilo. Come nei primi centri, istituiti ormai più di vent’anni fa, ritroviamo la stessa liminarità: spazi allestiti spesso in maniera precaria in container o tensostrutture e circondati da reti metalliche e recinzioni, distanti da tutto e tutti.

La seconda accoglienza – attraverso il coinvolgimento dei territori, più nello specifico dei comuni i quali, aderendo alla rete Sistema di protezione per richiedenti asilo (SPRAR, oggi SAI), possono realizzare progetti di accoglienza integrata – ha l’obiettivo dell’inserimento, dell’inclusione e dell’autonomia dei richiedenti asilo. Nonostante la presa in carico da parte dei territori, l’implementazione di un sistema di seconda accoglienza non ha significato l’inizio di un coinvolgimento del sapere architettonico nella definizione degli spazi e, di conseguenza, non si è generato un pensiero che abbia fatto dell’accoglienza un’occasione per la valorizzazione dei territori anche attraverso la progettazione dello spazio, come prova invece a fare oggi l’Abitazione della Pace.

Inoltre, da quando il sistema di seconda accoglienza è stato costituito, i progetti presentati dai comuni sono sempre stati pochi rispetto al numero degli aventi diritto. Per sopperire a ciò, nel 2012 sono stati istituiti i Centri di accoglienza straordinaria (CAS), che rappresentano quindi un ripiegamento verso soluzioni emergenziali. Infatti, gli spazi da adibire a CAS sono individuati dalle prefetture che stipulano convenzioni con associazioni, cooperative e strutture ricettive, una volta sentito l’ente locale in cui il soggetto gestore è localizzato. Si tratta quindi di soluzioni emergenziali che, come si sa, sono sempre povere di senso urbano. Non a caso, le strutture che ospitano CAS sono molto spesso del tutto inadeguate: come, ad esempio, residence in zone turistiche abitate solo in estate, oppure edifici sotto-standard dal punto di vista igienico sanitario e/o collocati in zone periferiche, vuoti che si riempiono.

Il carattere di provvisorietà e di precarietà a gradi e in modi differenti finisce per connotare tutti gli spazi di accoglienza, ledendo in molti casi anche la dignità dei migranti. Nonostante l’immigrazione sia ormai un fenomeno strutturale nel nostro Paese, la persistenza di una logica emergenziale nella gestione dei flussi e la costruzione politico-mediatica delle migrazioni come pericolo – che ha anche ostacolato la diffusione di una presa in carico dei migranti a livello locale – hanno impedito la promozione di una cultura architettonica dell’accoglienza. La logica emergenziale ha sottratto alla riflessione architettonica temi centrali per la disciplina, come quelli dell’ospitalità e delle nuove forme dell’abitare.

Il progetto dell’Abitazione della Pace indica una strada da seguire e testimonia la straordinaria valenza architettonica delle sfide poste dalle migrazioni. L’auspicio è che non rimanga una magnifica eccezione.

 

Dallo IUAV a un campo profughi in Grecia

La Glass House, padiglione progettato da due studenti di architettura per l’Open Day 2018, che per qualche tempo ha stazionato nel giardino dei Tolentini, sede dell’Università veneziana, dovrebbe essere riallestita nel campo profughi di Diavata, presso Salonicco. L’iniziativa (per saperne di più: humanitarian.architectures) parte dalla tesi di laurea di Elisabetta Gastaldon, Giulia Moro e Thuy Hong Nguyen (relatore Salvatore Russo, docente IUAV di Tecnica delle costruzioni), che ne immaginato l’adattamento ad aula di fotografia. Per l’attuazione è stata aperta una raccolta fondi.

 

Autore

  • Sonia Paone

    Professore associato in Sociologia dell’ambiente e del territorio presso l’Università di Pisa. Si occupa di marginalità urbana in prospettiva comparata, migrazioni e spazi urbani, dei rapporti fra carcere e città. Dirige per i tipi di Ets la collana di studi urbani e sociali "Eliopoli". È presidente dei Corsi di laurea in Scienze per la pace: cooperazione internazionale e trasformazione dei conflitti dell'Università di Pisa

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Last modified: 1 Giugno 2022