Pubblichiamo l’intervento di Renato Bocchi in occasione della presentazione del libro postumo di Francesco Garofalo (1956-2016) alla Biennale di Venezia il 26 novembre 2016
La riconquista dell’unitarietà dell’architettura
La proposta per l’architettura (italiana e non solo) che avanza Francesco Garofalo nella conclusione dell’articolo che dà il titolo al libro suona così: “L’ipotesi con cui voglio concludere è che il tarlo presente già nell’età dell’oro [dell’architettura italiana, cioè gli anni ’60-’70-’80; ndr] coincida con un certo paradigma, non esclusivo dell’architettura italiana, ma molto rilevante per essa [il riferimento è soprattutto a Manfredo Tafuri, ndr]: il paradigma contempla la costruzione del progetto come messa in scena o narrazione del frammento, la rottura dell’unità dell’organismo architettonico e una forte diffidenza per l’utopia. […] A questo punto ci vorrebbe invece una posizione che consenta la riconquista dell’unitarietà, senza cadere nel recupero di una organicità moderna e tantomeno postmoderna. Ci vuole un’architettura che per prima cosa non si faccia “ridurre” (a sostenibilità, tecnologia, attivismo, personalismi) e che sia intrisa di realismo e assolutezza, senza complessi nei confronti del linguaggio locale, ma che si emancipi, unitaria ma aperta”.
Ebbene, mi pare che questa proposta o aspirazione coincida davvero molto con gli interessi storico-analitici proposti dagli studi di Francesco, che il libro documenta assai bene con le sue “letture” di architetti per così dire “fuori-linea” o “isolati”, ma di grande personalità professionale e progettuale, da Adalberto Libera a Luigi Moretti, da Giuseppe Vaccaro a Angiolo Mazzoni. E potremmo aggiungervi sul piano internazionale altre figure oggetto di studio di Francesco e nel libro non contemplate: per esempio Steven Holl. Sono tutti architetti che uniscono realismo e visione, per usare due termini che ricorrono spesso nel libro, e che inoltre uniscono pragmatismo e sperimentazione, capacità di confrontarsi con la tradizione ma anche forte spinta verso il futuro, e ancora uniscono l’apertura verso la messa in discussione di canoni troppo stretti e quindi un confronto col frammento e l’eterogeneità, talvolta sfiorando l’eclettismo o l’eresia, con una ricerca di unitarietà, che qui non significa tanto oggettività o oggettualità quanto messa a sistema del molteplice, del complesso, in genere fuori però da tentazioni formaliste. Questi caratteri mi pare si ritrovino – con linguaggi e forme diverse – in tutte queste figure: da Libera a Moretti, da Vaccaro a Mazzoni, finanche a Mario Fiorentino.
Qui una breve scelta di citazioni dal libro. Su Libera e Vaccaro: “Entrambi, piuttosto che accettare affrettate riscoperte del classicismo, cercano di elaborare un doppio registro, più manualistico nelle occasioni minori e nelle ricerche sull’abitazione, e più austeramente elusivo nei concorsi e nei grandi complessi per uffici. […] C’è un tentativo di resistere distillando una specie di monumentalità rarefatta”. Commentando il progetto del Palazzo del Littorio, cui collaborano assieme Mario De Renzi, Libera e Vaccaro, Francesco conclude pensando all’architettura attuale: “L’architettura è un sapere che subisce molte trasformazioni superficiali e quasi nessuna rivoluzione profonda”. Su Mazzoni civil servant: “Dimostra in modo tragico e grandioso che la contraddizione tra produzione di massa e individualismo è insanabile e apre la strada a un anonimato più consapevole”. Commentando la città orizzontale di Diotallevi-Marescotti-Pagano, Francesco sottolinea: “L’architettura italiana ha oscillato sempre tra intransigenza e realismo, ha sublimato le tensioni radicali nel disegno, e fatto un’esperienza costruttiva molto più moderata e pacifica. Alla fine la sua espressione migliore rimane quella capace di tenere in equilibrio le pulsioni opposte, come si vede nell’unità di abitazione orizzontale di Libera al Tuscolano. […] In questo realismo che non cancella la radicalità del modello sta la lezione che vorrei imparare“. Di Moretti (e la sua rivista “Spazio”) scrive: “Esplorava la dimensione teorica in architettura da una posizione completamente autosufficiente, «autarchica», producendo risultati che sono inutili da un punto di vista disciplinare, ma illuminanti per quanto riguarda la sua strategia progettuale”. E nel suo “Palazzo volante” per Milano, Francesco vede “in qualche modo, come per l’unità di abitazione orizzontale di Libera a Roma, un affascinante e radicale esperimento architettonico, che trascende la natura speculativa dell’impresa originaria, e ascende allo status di protagonista nella città”. Ma questa linea di pensiero/azione si riconosce anche nell’attenta analisi che Francesco fa di un’opera fra le più controverse dell’architettura italiana, frutto del suo maestro Fiorentino: il Corviale. Un’opera che – con tutte le cadute che porta con sé – ricerca molto onestamente una coniugazione efficace di sperimentazione (nel superamento delle tipologie abitative standard) e di concretezza costruttiva, cercando di convincere la committenza “che Corviale doveva essere un esperimento che richiedeva la rottura con la frammentazione tipologica canonica dei progetti abitativi e che l’unificazione della forma e della costruzione avrebbe liberato molte risorse per la dimensione sociale del programma”.
Tornando all’inizio, quindi, mi pare di poter ribadire che la ricerca architettonica di Francesco è appunto ispirata alla “riconquista di un’unitarietà” che è tuttavia non oggettuale ma aperta, quindi che sa confrontarsi con la complessità e perfino con l’eterogeneità.
Il caso di Roma
Questi concetti sembrano potersi estendere anche alla città e in particolare alla città più amata e studiata: Roma. Nel saggio sull’esperienza di Roma 20-25, che ci ha accomunato in questi ultimi anni, Francesco ritorna espressamente sulla coppia “visione e realismo”: “Questo è un dualismo degli architetti romani che il pubblico degli esperti preferisce rimuovere dalla propria memoria”. E questa coppia solo apparentemente oppositiva ritorna caparbiamente nell’espressa richiesta rivolta a tutti noi da Francesco nella sua qualità di ideatore-coordinatore (con Giovanni Caudo) della suddetta iniziativa promossa da Maxxi e Roma Capitale: tenere il più possibile assieme “la chiarezza di un manifesto e la specificità di un progetto”. Compito assai arduo ma obiettivo assolutamente condivisibile, di coniugare per l’appunto visione e realismo, per poter confrontare “la forma della Roma quotidiana con quella immaginata dall’architettura” – ripetendo su vasta scala e con nuovi presupposti il tentativo antico di “Roma Interrotta” e volendo superare la “megalomania dell’opera senza città” rimproverata alle grandi opere delle archistar approdate a Roma in questi anni. È qui allora che emerge un tentativo di risposta a questa metropoli assai speciale, con una “struttura insulare”, in cui “solo il paesaggio rimane a tenere tutto insieme”.
Una ricerca personale
Questa mi pare in sintesi una possibile chiave di lettura di un libro, che già in premessa l’autore espressamente dichiara essere una ricerca di architettura: “Il contesto della mia scrittura“, esordisce, “è la mia personale ricerca di architetto. Che per me significa fare architettura scrivendo, piuttosto che scrivere sull’architettura”.
Ricordo al riguardo un suo lontano intervento in occasione del primo numero della rivista IUAV “Archint”, diretta a quel tempo (1995) da Vittorio Spigai e dedicata al tema Il progetto come ricerca, in cui Francesco, in calce ad un articolo su Moretti e la rivista “Spazio”, concludeva: “Questo contributo pone all’attenzione del lettore un progetto teorico. Le caratteristiche salienti di questo prodotto sono definibili per negativo: non è una teoria che si risolve nella scrittura, non sono disegni che si risolvono nella stesura di un progetto convenzionale, la sua produttività non sta in sé, ma fuori da sé. Nell’architettura a cui si lega. Il pensiero di Luigi Moretti, e molto spesso i ragionamenti degli architetti, sono qualcosa che – privato del legame con l’opera costruita e disegnata – non sta in piedi, diventa un sottoprodotto di altre discipline. […] «Spazio» è un esempio di progetto come ricerca”. E soggiungeva poi: “E’ un invito a seguire le tracce di Moretti? No, perché ogni rilettura è piuttosto una chiusura dei conti”.
Queste note richiamano infine il libro numero 2, contenuto dentro il libro-testimonianza di Garofalo e Lupano, in forma d’inserto centrale, come dentro un toast farcito, e intitolato Fuoriluogo: 20 testi di appunti e lettere del Garofalo operatore politico-culturale. Dove si legge per esempio: “Quel fascio di saperi che chiamiamo architettura non appartiene al mondo scientifico, e nemmeno a quello umanistico. Forse una sua appartenenza al mondo dell’arte e della creatività – mai presa in considerazione – avrebbe potuto riservare qualche positiva sorpresa”. E poco più avanti: “Che l’architettura non sia un ambito della ricerca lo dice intanto l’Europa – nella tassonomia dell’European Research Council quella parola non la trovate”.
Forse dovremmo davvero ripensare radicalmente il riposizionamento degli studi di architettura: sia in rapporto all’ostracismo che hanno nel quadro – in gran parte a valenza tecnocratica – delle politiche europee della ricerca, sia rispetto al ruolo che hanno o possono avere nel quadro della società attuale, oggi sempre più definita “circolare”! Onde evitare una possibile deriva verso il declino o addirittura l’estinzione.
Immagine di copertina: Francesco Garofalo con Renato Bocchi durante un dibattito del programma di ricerca universitario “Recycle Italy”
Cos’è successo all’architettura italiana?
Il punto di domanda finale del titolo, restituisce il senso più profondo del testo: uno sguardo curioso, appassionato, non retorico né dogmatico. L’ultimo libro di Francesco Garofalo (1956-2016) – dato alle stampe pochissimi giorni prima di morire, nello scorso agosto – non vuole essere un testamento dell’autore, architetto, docente e critico tra i più stimati. È invece un diario, personale certo, ma che punta l’obiettivo sulla collettività dell’architettura italiana del Novecento, cercando di farne emergere i caratteri meno appariscenti, e per questo più significativi. Anche la grafica asseconda l’idea e la volontà di narrazione, le immagini non vogliono stupire ma assecondare una trattazione a puntate. Oltre all’introduzione di George Baird, infatti il libro raccoglie 10 saggi pubblicati da Garofalo tra 1994 e 2015, proposti come emblemi di temi e problemi legati al modernismo, utili a dare luce ai fenomeni architettonici illustrando “la dimensione conflittuale e la presa di posizione politica”. Una volontà che si manifesta nella scelta, originale, d’inserire un secondo libro all’interno del volume principale: si chiama “Fuoriluogo”, ha una sua testata e una sua grafica autonome e raccoglie, con un analogo processo, 20 testi brevi degli ultimi 15 anni, originariamente non pensati per la pubblicazione e scritti con forme diverse (lettere, appunti, elenchi ragionati). Nella loro ambizione di essere strumenti di condivisione d’idee e discussione, supportano e rendono chiaro e immediato il carattere dialogico di un libro che chiede al lettore di essere parte attiva di un racconto.
Francesco Garofalo, Cos’è successo all’architettura italiana?, a cura di Mario Lupano (Marsilio, Venezia 2016, pp. 192, euro 25; versione inglese: What Ever Happened to italian Architecture?)
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Last modified: 1 Dicembre 2016