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Austerità o stravaganza

A gennaio il mio collega di Fast Company Michael Cannell, anche lui blogger di design, ha messo sul tappeto il problema con l’articolo per il «New York Times» dal titolo Design Loves a Depression (Il design ama la depressione), in cui sostiene che «il mondo del design è in grado di sopportare un ridimensionamento» e fa presente che nomi quali Charles e Ray Eames fiorirono lavorando entro i limiti materiali ed economici della recessione. Il giorno dopo Murray Moss, proprietario dell’omonimo negozio di design con galleria, ha ricambiato con il pezzo intitolato Design Hates a Depression (Il design odia la depressione), in cui dice che ai designer non servono tempi magri per eccellere e che quelli come Fernando e Humberto Campana dovrebbero essere celebrati per aver spinto il design ben oltre la funzione con sedie da 8.000 dollari e passa. Mi sembra il momento adatto per ricordare che, nel frattempo, Moss ha chiuso la sua tanto annunciata boutique a Melrose, Los Angeles, e trasferito gli uffici amministrativi nel suo negozio di New York, dimostrando che il design non solo odia la depressione ma, nel suo caso, può anche causarla. Questo mese, nel suo blog del «New York Times», Allison Arieff, ex caporedattrice di «Dwell» e ora direttrice di «Sunset», ha tentato di suffragare queste argomentazioni con un articolo un po’ più intraprendente intitolato Designing Through a Depression (Il design in tempi di depressione). Arieff allude al fatto che i designer dovrebbero approfittare di questa fase per esaminare i bisogni più elementari dei consumatori e incidere di più a livello sociale. Invoca la bicicletta pieghevole Strida di Mark Sanders fatta per i pendolari quale buon esempio di design della nuova economia. Mi sembra il momento adatto per ricordare che Strida 5.0 costa 800 dollari, ben oltre quanto la maggior parte di noi, che vuole andare dal punto A al punto B in modo sostenibile, investe in una bici ed è tutt’altro che l’epitome del design in grado di cambiare radicalmente il volto dei trasporti alternativi. Basandoci su questi tre articoli, sembra proprio che il design viva un tantino fuori dal mondo. L’aspetto notevole del dibattito design/depressione, però, è entrato in ballo quando l’architetto Cameron Sinclair, fondatore di Architecture for Humanity, che ha appena festeggiato i dieci anni, ha stroncato tutto tranne l’architettura socialmente responsabile nel suo pezzo per l’«Huffington Post», The Architect’s Dilemma (Il dilemma dell’architetto, cfr. articolo a p. 5). Per Sinclair, l’architettura che Architecture for Humanity sostiene è l’unica possibile in questi tempi difficili e qualsiasi cosa non segua gli obiettivi dell’associazione, cioè creare strutture intelligenti, sostenibili e dal design frugale, rientra nell’«architettura degli eccessi». Le gru ferme di quei progetti sembrano quasi renderlo euforico. In una replica, Frances Anderton, direttore della redazione di Los Angeles di «Dwell» e presentatore della trasmissione radiofonica DnA: Design and Architecture, ha detto che l’argomentazione è irrilevante: «C’è spazio a sufficienza sia per l’architettura che suscita soggezione e stupore, sì, con i suoi eccessi, sia per l’architettura al servizio delle esigenze della gente». Le società, le istituzioni e gli individui con i soldi, che vogliono creare esperienze simili per il pubblico, non dovrebbero poter forse realizzare le loro grandiose opere di architettura? In fondo, come fa notare Anderton: «Senza l’architettura degli eccessi non avremmo Versailles, il Taj Mahal, la torre Eiffel, la Sydney Opera House, Bilbao e molti altri monumenti alle egocentriche, eppure meravigliose, prodezze dell’immaginazione umana». Sinclair è quindi passato alla controreplica. L’aspetto interessante della sua posizione è l’introduzione del termine «etica» nel dibattito architettura contro crisi economica. Sinclair parla di un gruppo di esperti di cui doveva far parte con Zaha Hadid il 9 aprile al Barbican di Londra: «Quando ho saputo [che Hadid] avrebbe partecipato al dibattito, sono rimasto piuttosto sbalordito. È come chiedere a Robert Mugabe di parlare dei diritti umani». Caspita! Con tutte queste metafore sul bene contro il male mi viene da pensare che Sinclair voglia paragonare la splendida blobosità di Hadid alla progettazione della pubblicità di sigarette. Anderton ha poi riunito Sinclair e Gehry a DnA: Design and Architecture per saldare i conti (forse Hadid è troppo inaffidabile per essere invitata). Mentre Sinclair ha presentato un’ampia panoramica del programma e della straordinaria rete di Architecture for Humanity, Gehry ha audacemente offerto il commento forse più giudizioso dell’intero dibattito: «l’improvvisa svolta verso la modestia è solo un movimento trendy dei giovani architetti che non hanno ancora trovato la propria voce». È arrivato addirittura a definire «feticista» la progettazione verde dicendo «che la sostenibilità è diventata talmente preziosa che i cattivi architetti si nascondono dietro le loro certificazioni Leed per ottenere maggiore credibilità presso i clienti» (lui stesso ha spiegato di aver imparato l’efficienza energetica studiando i tepee). Se la posizione di Gehry merita considerazione, a mio avviso c’è spazio non solo per l’alto e il basso, l’accessibile e l’impossibile, il frugale e l’oltraggioso, ma anche per un diffuso abbraccio di entrambi. Un cambiamento c’è stato, e il nostro entusiasmo per i moltissimi e ben fatti sistemi di trasporto idrico per l’Africa è pari (se non maggiore) a quello per la manciata di bizzarri grattacieli come la torre CCTV di Rem Koolhaas a Pechino, dall’elegante facciata perforata. E questo grazie a tutti i produttori, le società, le organizzazioni e le istituzioni che hanno instancabilmente sostenuto il valore del buon design nella nostra cultura. Lo stesso merito si può riconoscere alla soluzione coraggiosa e pratica di Sinclair per il problema degli alloggi a buon mercato o alla straordinaria trasformazione di Gehry della cittadina industriale di Bilbao o ancora alla merce spiritosa di Moss, sistemata con affettazione sotto vetro che ci avverte di «non toccare». È «immorale » progettare qualcosa di eccessivamente grande, decadente e costoso in questi tempi bui? Hadid deve essere pubblicamente processata per i suoi reati architettonici? I designer con automobili eleganti, ma a benzina, sui tavoli da disegno devono essere condannati all’inferno del design? Gehry, perché vuole che il suo fantastico Atlantic Yards diventi realtà? Moss, perché spinge una cosa come il Polder Sofa (10.615 dollari) di Hella Jongerius? L’intera Milano della settimana del Salone del Mobile, perché perpetua un concetto simile? E dove andrebbe fissato il limite? Dobbiamo davvero ritirarci tutti negli alloggi di scarti di metallo a impatto zero, armeggiare con le nostre soluzioni per mettere fine alla povertà globale e serbare i concetti di design estremo per quando il mercato azionario ci dirà che possiamo permettergli di vedere la luce? O dobbiamo progettare monumenti mozzafiato che testimoniano i nostri progressi tecnologici nella speranza di poter trarre ispirazione per uscire da questo caos? E chi sarà il giudice? Cameron Sinclair? Frank Gehry? Voi? Designer, clienti, cittadini: attendo i vostri commenti.

Debating the Design Depression: Austerity vs Extravagance, in FAST COMPANY, New York, 22 aprile 2009

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Last modified: 18 Luglio 2015