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Written by: Patrimonio

Nuova passeggiata archeologica: Roma ostaggio della spettacolarizzazione

Riflessioni a margine degli esiti del recente concorso: precedenti, sfide, paradossi, immaginari

 

ROMA. Che il progetto per la Nuova passeggiata archeologica, primo atto della sistemazione del Centro archeologico monumentale, fosse destinato a suscitare un vespaio di polemiche era quanto meno scontato. La vicenda è solo l’ultimo capitolo di una questione che attanaglia amministrazioni di vario profilo politico da quasi mezzo secolo, ma le sue radici affondano sino alle origini di Roma moderna.

 

Un centro conteso tra i poteri, una guerra di simboli da Michelangelo in poi

Il progetto del centro storico monumentale è il progetto di Roma da quando essa ha assunto il ruolo di capitale. Ruolo eminentemente simbolico, va ricordato, giacché la città sin dal celebre “anatema” di Quintino Sella contro l’idea di una Roma industriale, ha di fatto rinunciato a qualsiasi ambizione realmente produttiva in senso moderno. Da quel momento il centro è diventato il soggetto conteso tra i poteri in gioco, in particolare la Chiesa e lo Stato, via via declinatisi nelle loro mille sfaccettature: dalla politica alla burocrazia, dalla proprietà terriera e immobiliare alle corporazioni, dal clientelismo sino alla stessa cultura – che, insieme alla religione, dei simboli è la principale depositaria.

Da sempre, dunque, Roma è un’entità bifronte, duale, politicamente irrisolta. Per questo tutti i tentativi di riorganizzarne il centro hanno avuto un carattere dimostrativo e conflittuale: una vera e propria guerra di simboli combattuta a colpi di piccone e colate di cemento, nella quale a farne le spese è sempre stata la città come entità viva, sociale, reale.

Se ne vedono le tracce già all’epoca del progetto di Michelangelo per il Campidoglio che fronteggia la sua controparte religiosa, San Pietro. Ma il vero assedio al centro prende il via con gli architetti napoleonici, che iniziano gli scavi dei Fori e prefigurano una città dilatata e monumentale che il loro condottiero voleva la seconda capitale dell’impero (pur non avendola mai neppure visitata). Proseguono i piemontesi sventrando un intero quartiere per erigere il più grande edificio privo di funzioni della storia della città, il monumento a Vittorio Emanuele II, e immaginando un grande parco urbano in stile europeo intorno alle Terme di Caracalla, la cosiddetta Passeggiata archeologica (non senza sacrificare numerosi resti del passato, compreso il tratto della via Appia). Conclude il regime fascista sovrapponendovi il suo sistema scenografico di (auto)strade e quinte urbane: un retorico teatro della città antica dove sfilare sul mezzo più moderno dell’epoca, l’automobile.

 

La Repubblica, tra conservazione e ideologia: il progetto Fori Imperiali rimane sulla carta

La storia repubblicana dei Fori Imperiali ha dunque ereditato una complessa stratificazione di progetti, ben rappresentata dall’articolazione archeologico-urbana del centro città. Se da un lato senza le vituperate demolizioni messe in atto tra l’Ottocento e il ventennio fascista non staremmo a parlare di passeggiate archeologiche, dall’altra le condizioni intorno alle quali si inaugura il dibattito postmoderno sono nuove.

Il 21 dicembre 1978, in una città ancora scossa dall’omicidio di Aldo Moro, il soprintendente ai Beni archeologici Adriano La Regina ottiene la ribalta dei maggiori giornali denunciando le “gravissime condizioni” in cui versano i monumenti dell’area archeologica centrale a causa dello smog. È lo stesso sindaco Giulio Carlo Argan ad esprimere ancor più chiaramente il concetto: “O i monumenti o le macchine!”.

Da allora il dibattito si accende su un doppio registro: da un lato quello conservativo e ambientalista portato avanti soprattutto da Antonio Cederna per l’attuazione di un grande parco archeologico che comprendesse l’intera area dei Fori, tra il Campidoglio e il Colosseo, estendendosi nel grande cuneo verde lungo il tracciato della via Appia. Dall’altro quello ideologico, ovvero la vexata quaestio della rimozione dello “stradone fascista” di via dei Fori Imperiali, che attira i sospetti trasversali di figure come Paolo Portoghesi e Bruno Zevi, ma anche i primi dubbi dello stesso Carlo Aymonino, assessore al centro storico della giunta Petroselli, succeduta ad Argan, che pure aveva avviato con coraggio il cosiddetto Progetto Fori, anche sulla scorta della riscoperta del centro durante le Estati romane dell’assessore alla cultura Renato Nicolini.

A parte l’inaugurazione delle pedonalizzazioni domenicali del rettifilo (1 dicembre 1981), lo smantellamento di via della Consolazione, sotto il Campidoglio, e la chiusura della piazza tra il Colosseo e l’arco di Costantino, il Progetto Fori resta in gran parte sulla carta. Ma l’archeologia è ormai un soggetto politico – non va dimenticato che le competenze sull’area sono divise tra Comune e Demanio -, così la Soprintendenza archeologica rilancia nel 1985 incaricando Leonardo Benevolo che con Vittorio Gregotti e altri propone un progetto unitario per l’intera area archeologica: un parco privo degli stradoni fascisti, sostanzialmente pedonale sino alle mura Aureliane.

Ma ormai la distanza con l’amministrazione comunale guidata da Ugo Vetere, sindaco dopo la prematura scomparsa di Petroselli nel 1981, è incolmabile. Altri sono i problemi di Roma in quegli anni che oggi ci sembrano preistoria: abusivismo, piani di zona, metropolitana, persino il problema della casa nel centro storico. Così si opta per un concorso internazionale d’idee, ma la giunta cade prima che sia bandito e per più di un decennio il problema è rimosso dalle agende istituzionali.

 

Seconda Repubblica: i turisti, nuovi barbari?

Si arriva così alla Seconda Repubblica, l’epoca dei sindaci votati dai cittadini. L’interesse per il centro va di pari passo con la modernizzazione della città. Curiosamente nessuno lo aveva presagito, né temuto prima (nel libro-consuntivo di Aymonino, Progettare Roma Capitale (1990), raramente la parola s’incontra), ma il turismo si affaccia prepotentemente alla ribalta e in epoca di Giubilei si ritiene di poterlo cavalcare e “valorizzare”.

Sotto Walter Veltroni s’inaugura l’apertura gratuita della via Sacra (1997), ma il bottino è troppo ghiotto e nel 2005 si ripristina il pedaggio con l’effetto di aumentare il divario tra (sempre più) turisti nel cratere archeologico e (sempre meno) cittadini comuni alla quota di via dei Fori Imperiali, nel frattempo vincolata dal Ministero dei beni e delle attività culturali.

Alla sempre più febbrile attività di scavo volta a “riscoprire” il passato imperiale, inizia infatti a contrapporsi la difesa, da sinistra, del valore storico del grande asse e dell’assetto urbano per molti versi consolidato (Vittorio Vidotto, Mario Manieri Elia). I progetti di questa stagione (Massimiliano Fuksas 2004, Raffaele Panella 2005, infine Franco Purini 2015, per citare solo i più emblematici) riscoprono le virtù di un archetipo dell’architettura moderna: il viadotto – o passerella, nel gergo politically correct – ovvero la soluzione per salvare capra (la strada) e cavoli (il sottobosco archeologico). Ma la città è sempre più lontana.

Così, dopo l’ultimo colpo di frusta dato dal sindaco Ignazio Marino prima di essere defenestrato dal golpe interno del suo stesso partito, il PD, con la chiusura al traffico privato del tratto di via dei Fori Imperiali da piazza Corrado Ricci al Colosseo nel 2013, e dopo gli effetti del Covid che prima ha svuotato il centro e successivamente rifornito le casse delle amministrazioni grazie ai fondi PNRR, il progetto dell’area archeologica centrale è tornato in auge come grande snodo urbano per accogliere le masse di visitatori che nel frattempo sono tornate ad affollare Roma.

 

Centro archeologico monumentale: scavi per il “consumo veloce” dei luoghi?

Ed è su queste basi che si fonda il progetto CArMe (Centro archeologico monumentale di Roma), voluto dall’attuale sindaco Roberto Gualtieri e redatto da Walter Tocci, già vicesindaco e assessore alla mobilità nella giunta Rutelli. Non a caso il cuore del denso e documentato rapporto presentato nel giugno 2023 è tutto nella “rivoluzione della mobilità” non più carrabile e il conseguente ripensamento dell’intera quota stradale dal Colosseo a piazza Venezia come un gigantesco salotto urbano a più livelli che, con gran sfoggio di ottimismo della volontà, s’immagina rivolto a quegli stessi cittadini da anni espulsi dal centro e sostituiti da un turismo sempre più veloce e aggressivo.

Infatti il deus ex machina che si invoca è la metropolitana. Tutta la messe di studi sull’Area archeologica degli ultimi anni, su cui il rapporto si appoggia, scommette proprio sul tema dello scavo, accentuando quell’alleanza tra archeologia e turismo mediata se non addirittura incarnata dall’infrastruttura. Sarebbe facile obiettare che i cantieri delle fermate centrali della famigerata Metro C, pur avviati da lustri, sono destinati a rimanere tali ancora a lungo (il cartello su piazza Venezia recita ottimisticamente: apertura 2033).

Ma il vero problema è la natura di tali spazi, spazi dell’attraversamento veloce che, a prescindere dalla qualità, se non debitamente bilanciati da politiche attente, ovunque nel mondo alimentano quel consumo della città che al centro di Roma ha già devastato proprio le sue aree più fragili, dal quartiere Monti al tridente di piazza del Popolo.

 

Le debolezze del concorso

Se c’è quindi un problema nel recente concorso della Nuova passeggiata archeologica, primo atto del programma CArMe, non è tanto nel brief in sé: realizzare un itinerario ciclopedonale adeguatamente attrezzato che circumnavighi il Palatino e renda realmente fruibile lo spazio urbano. E nemmeno il paradosso che si chieda la reversibilità dei materiali usati – da cui l’improbabile proposta di pavimentazioni in legno del progetto vincitore (Labics) – mentre si sta scavando e ridisegnando l’area archeologica più grande del mondo. Persino le polemiche sul mantenimento della direzionalità di via dei Fori Imperiali, su cui è prontamente intervenuto con appositi diktat il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano in persona, sembrano di facciata (e infatti sindaco e ministro hanno prontamente trovato un accordo).

Piuttosto la questione è nel non detto: quella malcelata idea di Roma come città-metropoli spettacolare, che non può realizzare una pista ciclabile senza invocare un archeo-tram, un nuovo marciapiede senza immaginarvi sopra una Biennale di arte contemporanea o “una grande piazza per la notte”, una passerella sopra un’area archeologica senza farla illuminare a Vittorio Storaro, una fermata di metropolitana senza metterci un resto archeologico destinato ad “arredarne” gli spazi. Una città che vuole rivendicare la sua unicità ma, a dispetto delle dichiarazioni d’intenti, sente ancora l’obbligo novecentesco di cavalcare una presunta modernità affidandosi “a ciò che non è”, purtroppo a spese dei luoghi abitati che nei bassi giri del motore hanno da sempre la loro migliore qualità.

Immagine in evidenza: il Centro Archeologico Monumentale di Roma oggi

 

Autore

  • gabriele_mastrigli

    Architetto e critico, vive a Roma. È Professore associato di Composizione architettonica e urbana presso l'Università di Camerino – Scuola di Architettura e Design di Ascoli Piceno. Ha pubblicato tra gli altri la raccolta di saggi di Rem Koolhaas, Junkspace (Quodlibet 2006, Payot & Rivages 2011) e il volume Superstudio Opere 1966-1978 (Quodlibet 2016, Chongqing Yuanyang Culture & Press 2018). Per il museo MAXXI ha curato la mostra Holland-Italy 10 Works of Architecture (2007) e la retrospettiva Superstudio 50 che ha aperto a Roma nel 2016 e presso la Power Station of Art, Shanghai nel 2017-2018.

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Last modified: 17 Aprile 2024