Premio Baffa Rivolta, termometro europeo della qualità dell’abitare

Premio Baffa Rivolta, termometro europeo della qualità dell’abitare

Una dei giurati dell’edizione 2023 esamina identità e limiti dei progetti candidati e premiati

 

Published 19 aprile 2024 – © riproduzione riservata – testo raccolto da Michele Roda

Spazi condivisi, purchè non siano enclave

Le realizzazioni candidate al Premio Baffa Rivolta esprimono, per mandato, una spiccata dimensione sociale, che si traduce spesso in generosi spazi condivisi ai piani terra, oppure su terrazzi e giardini. Pensati come luoghi di aggregazione, talvolta per precise categorie (bambini, ragazzi, anziani), presentano spesso soluzioni compositive essenziali, al limite del «non progettato». È una caratteristica che in molti casi deriva da una mancata designazione preventiva di chi effettivamente potrà o vorrà abitare quegli spazi e, perciò, manifesta la necessità di universalità, di adattabilità ad abitanti diversi; al contempo, la laconicità di questi spazi suscita interrogativi sulla loro effettiva capacità di essere accoglienti. Le immagini prodotte, dove questi luoghi si mostrano in gran parte deserti, non aiutano a orientarsi. La presenza immancabile, seppure talvolta fragile, di questi spazi sollecita una riflessione su aspetti politici del progetto, con cui mi pare necessario confrontarsi.

Soprattutto a partire da metà Novecento, infatti, abbiamo assistito a una progressiva polarizzazione: da una parte la casa popolare o sociale (uso questa definizione con la consapevolezza che oggi non sia adatta a descrivere tutte le forme in cui si presenta), dall’altra la cosiddetta casa borghese. In quest’ultima, l’attenzione progettuale si è concentrata pressoché esclusivamente sull’alloggio, mentre nella casa popolare s’insiste tipicamente sulla necessità di dover inserire quote di luoghi collettivi e condivisi. Si è trattato, probabilmente, dell’esito di un approccio paternalistico, di chi pensava all’architettura residenziale come a uno strumento di «educazione» per quanti, spesso provenendo dalle campagne o da aree economicamente depresse, si trasferivano in città per motivi di lavoro e dovevano perciò essere da un lato non sradicati dalle consuetudini «paesane» (il mito, spesso infondato, delle unità di vicinato ne è un retaggio assai noto), dall’altro edotti alla socialità che la vita urbana inevitabilmente porta con sé.

Forse oggi è venuto il momento di superare questa interpretazione novecentesca: non pensare necessariamente a forme di «micro-città» interne agli interventi di residenze popolari, ma lavorare maggiormente su connessioni e sinergie con la città stessa, facendo delle residenze sociali una parte integrante della città tutta e non delle enclave, recluse o protette, secondo i casi.

 

Anche nel social housing si può riusare

Per questa edizione del Premio, abbiamo assegnato una menzione a un progetto che opera la riconversione residenziale di un ex ospedale, a Basilea. Al netto di rare eccezioni, la stragrande maggioranza dei progetti che sinora si sono candidati riguardano nuove costruzioni. È importante evidenziare questa circostanza perché dovremmo conquistare convinzione e consapevolezza che non solo è possibile, ma anzi auspicabile che le strategie di recupero e riuso diventino prioritarie anche nel caso dell’housing con forte vocazione sociale.

La riconversione di edifici esistenti con finalità residenziale sociale, possibilmente ibridata con altre funzioni miste, è una possibilità interessante per reimmettere nel ciclo vitale della città manufatti obsoleti. Si tratta di un percorso etico ed ecologico che sollecita a confrontarsi con il tema della sostenibilità non solo in termini strettamente tecnologi-ambientali, ma come posizionamento responsabile volto a ottimizzare le risorse disponibili, incluse le costruzioni esistenti, anche o soprattutto in un settore del mercato edilizio in cui i costi delle operazioni assumono una valenza necessariamente stringente.

 

Parametri variabili, confronti difficili

L’orizzonte internazionale del Premio è una straordinaria opportunità per tratteggiare un ritratto ad ampio spettro dell’architettura contemporanea europea. Al contempo, pone anche qualche difficoltà, chiedendo di confrontare esperienze che appartengono a contesti eterogenei.

Il bando, infatti, richiede non solo l’illustrazione degli aspetti architettonici dei progetti candidati, ma informazioni sugli aspetti finanziari e gestionali: natura dell’iniziativa, costi di costruzione, committenti, modalità di assegnazione degli alloggi. Ci si trova perciò a scegliere tra interventi riccamente finanziati con soldi pubblici a fondo perduto e altri completamente auto-finanziati, ad esempio dai soci di cooperative, peraltro in contesti locali assai diversi: l’abitare sociale a Zurigo, per esempio, ha caratteri tradizionalmente lontani da quello di Roma. Per questo è fondamentale che la giuria, come succede, abbia esperti in diversi ambiti geografici.

Un ulteriore elemento importante da affrontare è lo specialismo dei progettisti: basta scorrere i nomi dei candidati per rendersi conto che ci sono strutture professionali che fanno dell’abitare sociale il campo privilegiato di azione, affinando nel tempo tecniche, modelli e soluzioni, con il risultato di raggiungere – oltre a una notevole qualità architettonica – anche standard molto elevati di gestione e ottimizzazione del cantiere. Da un certo punto di vista è un elemento positivo ma, al contempo, si rischia di perdere quella eterogeneità di contributi progettuali (penso ai grandi nomi dei quartieri italiani del dopoguerra) che ha caratterizzato le stagioni migliori di sperimentazione sulla casa popolare.

 

Occasioni perse

Da architetta del paesaggio, noto, con dispiacere, che gli spazi aperti sono spesso una parte secondaria, addirittura trascurabile, del progetto. In alcuni casi, pur in presenza di dotazioni di spazi aperti pertinenziali, l’attenzione progettuale su di essi sembra del tutto assente: i giardini, ad esempio, sono indicati come parte del programma funzionale ma non sono configurati, anche in realizzazioni di qualità, dove paiono prevalere gli aspetti tipologici/distributivi e funzionali e il costo al metro quadro. Mi paiono occasioni perse.

 

«Stagionatura»: usi, immagini e persone

Poi c’è la questione del tempo. Nei premi, in genere e non solo in questo, la giuria è chiamata a valutare la qualità di opere appena inaugurate, nuove di zecca. Ma come invecchiano? Come diventano nel trascorrere del tempo? Sarebbe davvero interessante adottare uno sguardo retrospettivo, valutare i luoghi dell’abitare sociale dopo alcuni anni, verificando come si trasformano e come vengono vissuti sia gli alloggi sia gli spazi collettivi che oggi – e vengo all’ultimo punto, richiamando quanto già accennato in apertura – nelle immagini che riceviamo sono quasi sempre deserti, senza abitanti.

È una scelta che spesso valorizza la qualità dell’immagine fotografica, ma mi domando se non sia anche espressione di uno sguardo che non si concentra adeguatamente sugli abitanti di queste architetture. Negli anni scorsi il tema della partecipazione ossessionava tutti, oggi non più. Non è necessariamente un male, dipende dalle circostanze specifiche, ma mi chiedo se i progettisti riflettano con sufficiente attenzione su chi abiterà queste case.

 

In copertina e sotto, il progetto vincitore dell’edizione 2023: complesso di oltre 130 alloggi sociali a Gavà, presso Barcellona, degli spagnoli H Arquitectes (già vincitori del Premio nel 2015)

 

Il Premio Baffa Rivolta: promosso da italiani, vinto sempre da altri

Organizzato dall’Ordine degli Architetti di Milano con cadenza biennale e dal 2007 premia le migliori realizzazioni europee di edilizia sociale ed è punto di riferimento del dibattito sul social housing a livello internazionale. In 9 edizioni, 4 sono state vinte da architetti spagnoli. Mai ha prevalso un italiano. I membri effettivi della giuria per l’edizione 2023, conclusasi a febbraio 2024, sono stati Annalisa Metta, Alberto Lessan, Marta Peris e Jose Toral (Peris+Toral Arquitectes), Nicola Russi e Christian Sumi.

Autore

  • Annalisa Metta

    Architetta, PhD in Architettura dei Parchi, Giardini e Assetto del Territorio, è professoressa ordinaria in Architettura del Paesaggio all’Università Roma Tre. La sua ricerca si rivolge ad approfondimenti teorico-critici ed esperienze applicate sul progetto degli spazi aperti a diverse scale. Nel 2017 è selezionata dalla School of Design dell’University of Pennsylvania tra i 16 studiosi emergenti più interessanti nell’avanzamento dell’architettura del paesaggio a livello internazionale. Nel 2016-17 è l’Italian Fellow in Landscape Architecture presso l’American Academy in Rome e dal 2017 ne è Advisor. Tra i libri, Il paesaggio è un mostro. Città selvatiche e nature ibride (DeriveApprodi, 2022). È tra i fondatori di Osa architettura e paesaggio, con sede a Roma (2007), città in cui, nel 2018, si aggiudica il concorso a inviti per il progetto del Parco fluviale di Poste Italiane sul Tevere