Riceviamo e pubblichiamo una riflessione sulle scelte curatoriali della Biennale di Venezia 2021
Le parole d’ordine possono intendersi come indicazioni prescrittive o come concetti che mettono ordine nel discorso. In ambedue i casi sono parole ingombranti, perché gli eventi storici hanno ben poco ordine al loro interno e vivono di contraddizioni. Per questo, l’uso che ormai ne facciamo sembra spesso fuori posto, pronto per essere utilizzato strumentalmente se non surrettiziamente.
Resilienza è la parola d’ordine del momento. Alla fonte originale del suo senso primario, essa è cogente dentro il campo di resistenza di un materiale: la capacità di resistenza nella fase elastica di bassa deformazione. Quello che conta, assegna prospettiva alle cose, garantendogli un destino da rudere, è però la tenacità, e cioè la capacità di resistenza anche e soprattutto nella fase di snervamento e in quella plastica. È dentro il tempo e nonostante esso che la tenacità ci concede di vedere come il fine di ogni produzione umana e il suo significato sono non confusi e non divisi.
Estrapolare la resilienza, una capacità di resistenza a tempo determinato, e farne una prospettiva valida di produzione di cose e di senso, si traduce nella possibilità illusoria di frenare il consumo entropico del reale, o riciclando continuamente gli esiti (quando ancora non sono entrati in quella di snervamento e di plasticità) oppure producendo realtà materiali, senso immateriale, ideati proprio per vivere dentro il tempo effimero della loro fase elastica.
È soprattutto in questo senso che la resilienza, intesa come principio informatore, chiave ideativa di una politica, traccia di riflessione culturale, maniera di sperimentazione architettonica, si presta a essere criticata. La resilienza sembra una versione aggiornata, o una linea d’azione ancor più arretrata, del concetto di sostenibilità.
Già Claudio Napoleoni ebbe a dire di stare attenti al concetto di sviluppo sostenibile, perché esso è più che altro un’immagine senza contenuti di realtà. Lo sviluppo e la crescita, infatti, se stiamo a quello che dovremmo tutti conoscere, sono i contenuti di una fase precisa, con un inizio e una fine, della vita di un essere umano. A un certo puntò l’età dello sviluppo cessa e non ne esiste un altro genere, a seguire. Dopo lo sviluppo esiste un’altra fase che non è di sviluppo.
Sarebbe lungo dimostrare, in maniera circostanziata, come sin dalla sua nascita, con la “Presenza del passato” [1° edizione, 1980; n.d.r.], il vero problema chiaramente percepibile nella Biennale di Architettura è proprio la costante imprecisione dei temi che ci assegniamo, rispetto al tempo che di volta in volta pretendiamo di rappresentare. Abbiamo troppo spesso raccattato questioni più che proporci, anche sbagliando, d’esserne i coniatori.
Anche nella Biennale 2021 è così. Questa maniera, pratica e intellettuale, incardina questa disciplina antica dentro una condizione del tutto simile a quello di una riserva indiana, che si caratterizza e si traduce nella libertà di tirare fuori i nostri costumi piumati, di cantare le nostre canzoni intorno al fuoco, ballando intorno ad un totem, solo ed esclusivamente quando arrivano i turisti. A me non piace questa condizione da riserva antropologica e culturale che ci caratterizza, in cui la Biennale non ha colpe ma in cui va in scena senza pietà questa condizione.
Se andassimo indietro nel tempo verso chi ci ha preceduto (e non nella maniera di esprimere un linguaggio architettonico, ma in quella di interpretare un mandato culturale, sociale, intellettuale e finanche tecnico) la differenza, anche nel caso di questa Biennale, sarebbe stata probabilmente la seguente: loro non avrebbero posto la questione sul “come vivremo insieme” (domanda reclutata dall’attuale dibattito) ma si sarebbero chiesti se “vivremo ancora insieme”. Come diceva Louis Kahn, è difficile rispondere in maniera intelligente a una domanda che forse non lo è anche quando la vestiamo da paradigma.
Immagine di copertina: Peluffo & Partners, moschea di Sokhna (Egitto). Dettaglio del modello ceramico: Danilo Trogu, Gianluca Peluffo, Antonio Lagorio
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biennale venezia , lettere al Giornale
Last modified: 4 Giugno 2021