Il presidente di DOCOMOMO Italia si schiera contro il concorso che propone di demolire e ricostruire la biblioteca scientifica
Apprendiamo del concorso di progettazione espletato per sostituire la struttura realizzata da Frediano Frediani tra il 1957 e il 1959, con destinazione di biblioteca scientifica, tra i due blocchi ottocenteschi della stazione zoologica Anton Dohrn (leggi la “Lettera al Giornale” scritta da Gianluca Frediani, nipote di Frediano). L’intervento di Frediani non è un’architettura isolata che esprime il proprio linguaggio in piena autonomia, scevra da condizionamenti. Al contrario, concepita necessariamente in stretto rapporto con i volumi preesistenti per la particolare collocazione e per la funzione assegnatale, essa rappresenta un esempio di felice connubio tra un complesso d’epoca e un inserimento “moderno”. Senza rinunciare alle regole di un tardo razionalismo, di cui costituisce espressione e testimonianza storica, si integra con estrema naturalezza tra i corpi di fabbrica ottocenteschi. Naturalezza che conferisce a questa piccola opera un significato anche più ampio di quanto potrebbero far pensare le sue ridotte dimensioni e la sua evidenza esteriore.
In tempi in cui il “costruire nel costruito” è quasi sempre una condizione imprescindibile nei concentrati urbani della vecchia Europa, la naturalezza e la “misura” costituiscono una lezione sempre valida, tanto più in interventi come quello in questione che, legittimati dal tempo trascorso, rappresentano, in qualche modo, una metafora di problematiche estensibili al rapporto tra storiografia e cronaca, tra antico e contemporaneo, tra continuità e rottura nell’interpretazione del processo storico.
Senza voler disconoscere il legittimo diritto di un collega (nella foto di copertina, il progetto vincitore di Sossio De Vita) a cogliere un’occasione professionale in un momento così difficile, non comprendiamo la ratio di questo bando e di questo progetto che, al contrario dell’architettura che dovrebbe sostituire, s’inserisce con deflagrante fragore in una scenografia ormai storicizzata e unitaria. Mentre la prima, pur nella diversità ed essenzialità del semplice impaginato, è ormai parte del prospetto neorinascimentale della stazione, la nuova struttura sembra volerne uscire da ogni lato, malamente costretta dai limiti dei corpi di fabbrica ottocenteschi. Mentre l’architettura che si vorrebbe sostituire è oggi portatrice di significati che vanno al di là delle sue obbligate dimensioni, quella in progetto, all’opposto, sembra voler andare oltre queste ultime attraverso un linguaggio di rottura, nel materiale impiegato, nella semplificazione dell’insieme, nelle dimensioni fuori scala delle aperture, nel “clamore” complessivo di un intervento “sopra le righe”.
La sua improprietà richiama un altro intervento, ormai datato, nello stesso contesto: la recinzione della Villa Comunale. Senza nulla togliere alla fama di Alessandro Mendini, si deve constatare che la città partenopea continua a mostrare la sua frustrazione nei riguardi dell’architettura contemporanea. Lasciando, infatti, da parte il caso della metropolitana, per tanti versi unico per Napoli e non solo, si assiste a ricorrenti tentativi di gridare qualcosa di nuovo in situazioni non adatte, con interventi fuori posto e fuori scala. I mesi di polemiche che seguirono alla realizzazione della recinzione non erano stati previsti dalla giunta di allora che, col senno di poi, avrebbe probabilmente evitato quell’intervento, in cui le istanze di aggiornamento della città venivano spese su una semplice recinzione e su lampioni che non illuminano.
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Last modified: 9 Aprile 2018