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Cecilia RosaWritten by: Forum

Musei etnografici, purchè contemporanei

Una riflessione a valle dell’apertura del nuovo Museo delle Opacità dentro il Museo delle Civiltà di Roma

 

ROMA. È stato inaugurato all’inizio dell’estate il nuovo Museo delle Opacità, una piccola matrioska in seno al Museo delle Civiltà di Roma che, sotto la direzione di Andrea Viliani (classe 1973, storico dell’arte e curatore, già direttore del Museo Madre di Napoli e del Centro di Ricerca Castello di Rivoli) ha riaperto al pubblico poco meno di un anno fa in una veste curatoriale totalmente rinnovata.

Il Museo delle Civiltà, infatti, collocato in due monumentali edifici simmetrici del quartiere EUR (Palazzo delle scienze e Palazzo delle tradizioni popolari), è attualmente oggetto di una progressiva riorganizzazione museografica, frutto di un progetto curatoriale che mira a una radicale revisione delle diverse collezioni incorporate dal 2016. Queste integrazioni, avvenute a seguito di un complesso riassetto delle strutture del Ministero della Cultura, hanno coinvolto raccolte di oggetti molto eterogenee tra loro: sono infatti state acquisite le collezioni del Museo Preistorico Etnografico Luigi Pigorini, del Museo d’arte orientale “Giuseppe Tucci”, del Museo delle arti e tradizioni popolari, del Museo Nazionale dell’Alto Medioevo, le raccolte mineralogiche e cartografiche ISPRA e gli oggetti provenienti dall’ex Museo Coloniale di Roma. A tenere insieme questa incredibile varietà di materiali è, secondo l’équipe curatoriale, la matrice ideologica del pensiero positivista, tassonomico, eurocentrico e coloniale, caratteristico del XIX e del XX secolo, con cui gli oggetti sono stati acquisiti, catalogati e raccontati.

Il nuovo progetto museografico ha dunque programmato un progressivo riallestimento di tutte le raccolte, con uno sguardo critico sui grandi temi della contemporaneità (sconvolgimenti climatici e ambientali, disuguaglianze sociali, processi di decolonizzazione), intendendo l’istituzione museale non più come un contenitore di risposte certe ma come un “catalizzatore di nuove domande” e cercando di decostruire l’idea di “alterità” che storicamente caratterizza i musei etnografici europei.

 

Il Museo delle Opacità e l’eredità dell’ex Museo Coloniale di Roma

Il nuovo Museo delle Opacità si confronta con la problematica eredità materiale e immateriale dell’ex Museo Coloniale di Roma, chiuso definitivamente all’inizio degli anni settanta e la cui collezione conta circa 12.000 oggetti prodotti o depredati durante il periodo coloniale italiano in Africa. Mentre manufatti e documenti abbandonati nei depositi per più di cinquant’anni sono in corso di catalogazione, con l’intento di ricostruirne la storia e le vicende, le nuove sale museali mettono in scena, attraverso installazioni di arte contemporanea che dialogano con i reperti storici, una narrazione critica del colonialismo italiano, sollevando il velo di opacità su una vicenda, fatta di violenza e soprusi, troppo spesso rimossa in un processo collettivo di deresponsabilizzazione. Ma, nell’idea dei curatori (con Viliani, Gaia Delpino e Rosa Anna Di Lella, progetto di allestimento in collaborazione con Dolores Lettieri), il termine opacità riveste un ulteriore significato: il diritto all’opacità, infatti, teorizzato dal poeta e saggista Édouard Glissant riguarda il diritto di ognuno di noi a non subire la riduzione della propria identità da parte degli altri a categorie preformate, il diritto universale a non essere classificati in parametri che non provengano da processi di autodeterminazione.

Il Museo delle Opacità (al quale veniamo introdotti già a partire dall’atrio) è stato allestito nei tre mezzanini del Palazzo delle scienze sopra gli spazi che già ospitavano le collezioni Pigorini su Arti e Culture Americane e Asiatiche, Arti e Culture Africane e Arti e Culture Oceaniche, non ancora riorganizzate. Dalle ampie e luminose sale sottostanti, caratterizzate da princìpi museografici ormai datati, si sale in spazi interstiziali più bui, compressi e articolati, permettendo così al visitatore di percepire fisicamente l’ingresso in una nuova dimensione narrativa.

Luci d’accento, infografica e rapporti spaziali tra le diverse opere sono calibrati per rendere il percorso una progressiva scoperta; interpretando così, attraverso l’arte, diversi temi: dalle appropriazioni coloniali alle cancellazioni di storie e comunità, dal rapporto tra arte e propaganda al problema delle restituzioni, con artisti contemporanei di varie provenienze geografiche e disciplinari (tra gli altri Theo Eshetu, Luca Guadagnino, Wissal Houbabi, Malak Yacout).

 

Il progetto museografico e l’obbligo di contemporaneità

Come dimostrano le esperienze del Museo Etnografico di Neuchâtel (MEN) e l’Africa Museum di Bruxelles, istituzioni che hanno avviato revisioni radicali delle proprie collezioni attraverso una lente de-coloniale, antropologi e curatori si stanno già da tempo interrogando sulla problematicità della narrazione delle collezioni archeologiche ed etnografiche. E gli architetti? Come si pone il progetto museografico e di architettura rispetto all’«obbligo di contemporaneità» che riguarda le istituzioni museali?

Se pensiamo ad alcuni esempi più o meno recenti, il Musée du quai Branly di Jean Nouvel, inaugurato nel 2006 a Parigi, è senz’altro tra i più celebri. Nouvel allestisce, com’è noto, un’unica grande sala senza suddividere le collezioni per provenienza, facendoci così percepire le totalità degli oggetti come appartenenti a un mondo “altro” indefinito. I colori sgargianti delle finiture ci trasportano in un’atmosfera genericamente esotica e primitiva (sottolineando così il binomio tutto europeo che lega il “primitivismo” alle culture lontane dall’idea di progresso occidentale), mentre le luci scenografiche d’accento esaltano le caratteristiche estetiche degli oggetti a scapito del racconto sul loro significato originario.

Più recentemente, nel 2015, ha aperto al pubblico il Mudec (Museo delle Culture) di Milano, su progetto di David Chipperfield Architects. La collezione etnografica permanente è stata riallestita nel 2021, con il titolo «Milano Globale. Il mondo visto da qui». Gli spazi del Mudec ci appaiono più pacificati: l’agorà curvilinea centrale, connotata da una luce placida e da tinte neutre, distribuisce le diverse sezioni del museo in maniera “isotropa”, mentre le sale che ospitano la collezione permanente, allestite in maniera impeccabile, celebrano la città meneghina come centro multiculturale; tuttavia, sebbene il progetto curatoriale racconti gli oggetti (molti dei quali risalenti al colonialismo italiano) attraverso approfondite cronache storiche, la narrazione Milano-centrica rischia di prevalere sulla criticità dei temi posti.

Lo spazio museale, attraverso le sue conformazioni e nel suo rapporto con la cultura materiale dell’uomo, è un potente veicolo di messaggi. Emerge dunque la necessità di ripensare a nuovi codici spaziali ed espressivi, sia nel progetto museografico che in quello architettonico, che provino ad abbracciare la complessità delle sfide del presente e che cerchino di colmare il fisiologico “ritardo” dell’architettura rispetto all’obbligo di contemporaneità dei musei che il dibattito culturale sta già cogliendo.

Immagine di copertina: © Giorgio Benni

 

Autore

  • Cecilia Rosa

    Nata a Roma (1990), dove vive e lavora, studia Architettura tra Roma, Milano e Porto, laureandosi con lode nel 2016 presso il Politecnico di Milano. Nel 2019 consegue un Master di II livello presso lo IUAV di Venezia in “Architettura digitale”. Dopo diverse collaborazioni tra Roma e Bologna, dal 2016 porta avanti la professione collaborando con lo studio romano STARTT (studio di architettura e trasformazioni territoriali) su diversi progetti a varie scale, seguendo principalmente progetti museografici. Dal 2019 è assistente alla docenza presso il Dipartimento di Architettura all'Università degli Studi “Roma Tre” e dal 2023 è dottoranda presso il medesimo Dipartimento

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Last modified: 17 Ottobre 2023