Una moltitudine di progetti in corso ma poca visione e coerenza. Riflessione sullo sviluppo urbano della Capitale, nell’epoca del Giubileo
Esaminando le vicende urbanistiche di Roma degli ultimi anni si ha la netta impressione di una trasformazione sgangherata, dove le apparenti visioni unitarie hanno ceduto il passo a un’alternanza di incompiutezza e realizzazioni frettolose, concorsi eclatanti e crescita silenziosa, iniziative private e movimenti dal basso.
Questo ha provocato un’inevitabile percezione comune da parte della cittadinanza, ma anche degli addetti ai lavori, di impotenza, sconforto e sostanziale impossibilità di immaginare un futuro realistico della Capitale.
Processi schizofrenici, esiti frammentari
La rappresentazione plastica della schizofrenia di questa macchina operativa è lampante nello stridore di fondo, frutto di una Roma a due velocità: da una parte una visione di città piuttosto datata – quella delle giunte Rutelli e Veltroni – che prefigurava un’importante dotazione di servizi e spazi per la cultura e il tempo libero, tematizzati in cittadelle dedicate (la città dei giovani, la città delle arti, la città della scienza, la città dello sport, la città dell’acqua), senza preoccuparsi troppo di dare forma a una visione altrettanto importante, ovvero quella della città residenziale. Abdicando di fatto a questo aspetto fondamentale della qualità urbana, nell’eterno braccio di ferro tra costruttori e Piano regolatore.
La realizzazione, o il tentativo di realizzazione, di questo modello di sviluppo su binari paralleli, ha visto una crescita esponenziale e rapida della dimensione abitativa, a sostegno di un’economia immobiliare necessaria a mantenere forte un sodalizio silenzioso tra palazzinari e banche, con l’effetto di screditare l’effettiva utilità dell’edilizia, e a maggior ragione di una sua forma architettonica.
Questa ha provato a rimanere in vita sul secondo binario, facendo i conti con gli esigui bilanci comunali e la frammentazione delle gestioni delle varie amministrazioni che si sono susseguite, con la conseguenza di amplificare ulteriormente la distanza tra la sperimentazione architettonica e urbana e la città concreta.
Il messaggio offerto dalla mirabolante quantità di concorsi promossi dal Comune di Roma – che nel migliore dei casi hanno visto lunghissimi processi realizzativi e aumento esponenziale dei costi (MAXXI, Macro, Piazza Augusto imperatore), pezzi di città tenuti in ostaggio per un quarto di secolo da conflitti e pressioni private (la città dei giovani di Rem Koolhaas agli ex mercati generali e la città dello sport di Calatrava), lo sforzo di ingegno ed economico messo in campo per concorsi travagliati che non hanno nemmeno visto la luce (il Campidoglio 2, la Città dell’acqua all’ex velodromo, il concorso per via dei Fori imperiali promosso dal Piranesi Prix de Rome e Ordine degli architetti di Roma nel 2016, cancellato dal progetto per la passeggiata archeologica su via dei Fori bandito dalla Soprintendenza capitolina nel 2024) – di certo ha rafforzato la percezione diffusa di un’elaborazione architettonica accessoria, eternamente asincrona rispetto alle esigenze contingenti dei cittadini, complice della dissipazione delle risorse economiche pubbliche, portatrice di lunghi disagi e limitati vantaggi dei pochi privilegiati residenti del centro urbano.
Tanti concorsi, tempi biblici, nessuna visione unitaria
Esiste dunque la necessità urgente di elevare il piano dell’immaginazione a conseguire una parità di peso e rilievo del piano attuativo. Una riflessione già caldeggiata dal sindaco Giulio Carlo Argan in occasione della mostra Roma interrotta nel 1978, che nel progetto utopistico della città, sovrapposto al rigore illuminista della pianta del Nolli, leggeva “Nessuna proposta urbanistica, naturalmente, ma una serie di esercizi ginnici alle parallele della Memoria. […] In ogni caso l’opposto diametrale di un Piano regolatore. Nessun progetto, dunque […] ma un rovesciamento e le ipotesi su quella che sarebbe stata Roma, se fosse seguitato a immaginarla invece di progettarla (male)”.
Inutile dunque guardare alle occasioni perse, laddove i concorsi hanno dato seguito a realizzazioni puntuali, lasciando inesplorato un pensiero su un tessuto connettivo che avrebbe potuto garantire la messa a terra di una visione unitaria, e invece rimasto su carta, come nel caso del progetto urbano Flaminio – Foro italico, partito su iniziativa del Comune di Roma nel 2002.
La parcellizzazione degli interventi, nonché il divario temporale intercorso tra pensiero progettuale e cantierizzazione – come anche una disparità di soggetti proponenti, e dunque di interessi – hanno contribuito a smembrare quel ragionamento sugli assi e gli spazi pubblici che appariva nel disegno dell’amministrazione a una scala evidentemente non sufficiente da diventare elemento non negoziabile delle richieste dei successivi bandi.
A partire dall’auditorium di RPBW (concorso del 1993, apertura 2002), il MAXXI di Zaha Hadid (concorso 1998, apertura 2010), il nuovo quartiere della scienza vinto da Studio 015 di Paola Viganò (concorso 2014), la pedonalizzazione della XVII Olimpiade aggiudicata all’architetto Andrea Stipa (concorso 2019), la copertura per il Centrale del Tennis al Foro Italico vinto da Redesco S.r.l. (concorso 2019), il Polo civico Flaminio di ApiuM2a (concorso 2020) il Grande MAXXI dello studio LAN (concorso 2022), per arrivare al museo della scienza di ADAT Studio (concorso 2023), lo spazio lasciato a un approfondimento delle aree pubbliche che potessero chiarire quale fosse l’idea di città alla base di questi interventi, trovando la sintesi dei frammenti in un’immagine unitaria, è sicuramente risultato inadeguato o assente.
Tradizioni, traduzioni e tradimenti
In questo senso, appare ancor più incerto l’esito delle proposte, di prevalente iniziativa privata, che interessano l’asse della via Cristoforo Colombo.
Un percorso urbano di straordinario fascino, pensato come punto di vista in movimento che mette in preciso dialogo gli edifici simbolici e l’orografia naturale della città, ma i cui rapporti percettivi sono stati compromessi già dalla mancata realizzazione della metà del complesso edilizio di Pascoletti sul flesso di Piazza dei Navigatori. Al suo posto, contraddicono l’idea originale, l’edificio per uffici abbandonato di Bruno Moauro e la promessa green del Fo.Ro di Cucinella.
Nella stessa direzione va il concorso del 2024 vinto da Acpv Architects, frutto di una convenzione tra Roma Capitale e Orchiedea S.r.l. per la demolizione delle volumetrie dell’ex fiera di Roma e la costruzione della città della gioia.
Una dozzina di palazzine basse che rifuggono un confronto con la scala monumentale dell’asse viario, determinando una perdita di tensione che tradisce la percezione unidirezionale del sistema urbano.
Alla luce di queste esperienze sarebbe forse interessante cavalcare l’onda di positività civica che sta innescando la conclusione degli interventi per il Giubileo, per mettere a punto un laboratorio di trasformazione che sembra aver trovato quanto meno un inedito punto di contatto tra il funzionamento della macchina burocratica e il concorso di progettazione.
L’auspicio è che la nuova struttura dell’Urban center Metropolitano di viale Manzoni, oggetto di un recentissimo bando, possa essere il luogo di una ritrovata effettualità operativa tra politica e cultura urbana, rimettendo al centro quell’immaginazione che Argan identificava come “la Provvidenza dei laici”, unica possibile cura di una “città [irrimediabilmente] impasticciata”.
Immagini di copertina: concorso del 2024 vinto da Acpv Architects per la demolizione delle volumetrie dell’ex fiera di Roma e la costruzione della città della gioia
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Last modified: 5 Febbraio 2025