Visit Sponsor

Alessandro ColomboWritten by: Patrimonio Progetti

Fondaco dei Tedeschi: pastiche fra nuovo e antico

Fondaco dei Tedeschi: pastiche fra nuovo e antico

Nella lettura critica di Alessandro Colombo l’intervento sull’architettura si divincola fra nuovo e antico esaltando una poetica del rudere, mentre l’allestimento “gigioneggia” fra stilemi di grande classe

 

Misurarsi con la storia è sicuramente arduo. Lo è ancora di più se il terreno del confronto sono la città storica e il luogo, un edificio che ha visto ben più 500 anni scorrere tra i propri spazi.

Se la città è Venezia e l’edificio il Fondaco dei Tedeschi adiacente al ponte di Rialto, forse la sfida è di quelle difficili da vincere. Per fortuna non sempre il pensiero e il timore – reverenziale – bloccano l’azione e ci ritroviamo così, oggi, a contemplare questo intervento di… Giusto, di cosa?

Di restauro, di riuso, di riutilizzo, di ristrutturazione, di reinterpretazione, forse anche di stravolgimento? La questione non è solo nominale. Non è facile definire l’intervento come non è facile “leggerlo” nelle sue componenti. Si dirà che le vicende sono note, ben ripercorribili e, anche in questa sede, ben ricordate. Ma la questione è un’altra.

Cosa abbiamo di fronte oggi quando scendiamo dal ponte e, percorsa una stretta calle, ci infiliamo nel cuore del complesso che ci accoglie con la sua corte di straordinaria severità e grandezza?

Certo, vediamo che ciò che oggi è un interno un tempo era uno spazio a cielo aperto, ma dobbiamo pensare che la copertura è ormai storicizzata, risale agli anni trenta, e, quindi, può essere preda di travi “americane” e proiettori teatrali che fanno, di colpo, apparire le solide strutture del mercato una scenografia, forse neanche troppo glamour.

Basta un rapido giro dello sguardo per cogliere, al di là dello scudo tagliato nelle murature, una rossa scala mobile. Sicuramente sintomo di modernità, ma che i deliziosi pannelli bombati sui fianchi (quale sublime similitudine con quelli della metropolitana linea 1 milanese di Albini-Helg, proprio in questi mesi oggetto di selvaggia rimozione e sostituzione in nome del nuovo!) e le pannellature in mogano addomesticano per rendere meno “commerciale” il pur spinoso strumento di risalita il quale, se non ci fosse, renderebbe poco appetibili gli spazi ai piani superiori.

Le sfumature di ottone sono, a tutti i piani, ben più di cinquanta e il materiale, miracolosamente riesumato nella sua versione bronzea anche per i contestatissimi infissi esterni, è il vero principe del progetto. Sempre a spigolo vivo (omaggio a Umberto Riva?), trova la propria apoteosi nelle pannellature che rivestono i corridoi e, soprattutto, nel piano espositivo del sottotetto. Qui la competizione con le travi chiodate degli anni trenta è vinta dalla tassonomia dei pannelli “tutti diversi gli uni dagli altri” che si fanno inevitabilmente guardare e apprezzare meglio di un’installazione della non lontana Biennale, ma che, con la loro ingombrante presenza, ti fanno anche capire che ben difficilmente qui si potrà esporre qualcosa che regga il confronto.

Il riferimento, in questi punti come in molti altri, è chiaro alla grande tradizione italiana degli anni cinquanta -Scarpa per fare un nome ovvio – nella quale architettura e allestimento si fondevano in risultati di straordinaria armonia che, anche qui a Venezia, avevano portato ad affermarsi quella visione figlia del movimento moderno in una città altrimenti avara di “tracce del moderno”.

Al Fondaco, invece, il risultato è un pastiche ove, con poca considerazione del contesto, l’intervento sull’architettura si divincola fra nuovo e antico esaltando una poetica del rudere che vede le tracce cementate nei muri di mattoni dei vani scala e le travi in cemento armato del Ventennio come reperti irrinunciabili, mentre l’allestimento gigioneggia fra stilemi di grande classe scelti, però, a catalogo da un progettista di buon gusto.

L’ammirazione, più che per chi ha disegnato, sorge spontanea per chi ha realizzato, magnificamente, con dedizione e passione, cose a volte fin troppo ardue per un edificio posto in un luogo, contiguo al Canal Grande e a Rialto, di inarrivabile difficoltà e bellezza.

 

Immagine di copertina: ©swphotography

Autore

  • Alessandro Colombo

    Nato a Milano (1963), dove si laurea in architettura al Politecnico nel 1987. Nel 1989 inizia il sodalizio con Pierluigi Cerri presso la Gregotti Associati International. Nel 1991 vince il Major of Osaka City Prize con il progetto: “Terra: istruzioni per l’uso”. Con Bruno Morassutti partecipa a concorsi internazionali di architettura ove ottiene riconoscimenti. Nel 1998 è socio fondatore dello Studio Cerri & Associati, di Terra e di Studio Cerri Associati Engineering. Nel 2004 vince il concorso internazionale per il restauro e la trasformazione della Villa Reale di Monza e il Compasso d’oro per il sistema di tavoli da ufficio Naòs System, Unifor. È docente a contratto presso il Politecnico di Milano e presso il Master in Exhibition Design IDEA, di cui è membro del board. Su incarico del Politecnico di Milano cura il progetto per il Coffee Cluster presso l’Expo 2015

    Visualizza tutti gli articoli

About Author

(Visited 2.264 times, 1 visits today)
Share

Tag


, ,
Last modified: 28 Settembre 2016