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A Montréal, gli Architetti in uniforme

Montréal. La generazione degli storici attuali più influenti non é nata sotto le bombe, ma nel contesto di rinascita ereditato dai loro padri, usciti dalla seconda guerra mondiale. Alla luce di quel conflitto sono state scritte le nostre costituzioni e fondate le nostre repubbliche. Non vissuto in prima persona, lo scontro mondiale ha assunto il valore di un mito fondativo, rispetto al quale le narrazioni dovevano risarcire i vinti:
compensazioni che rendessero conto della distanza tra le promesse della ricostruzione e le realtà dell’abitare, che spiegassero i malintesi tra le illusioni delle avanguardie e le concretezze delle tecniche, che tracciassero itinerari tra le discontinuità nelle politiche, nelle elite e nelle strutture tra prima e dopoguerra.
«Nato a Parigi quattro anni dopo la capitolazione del Giappone, la mia infanzia fu immersa nell’ombra di un conflitto ancora molto vicino, al punto che i partigiani e le SS assumevano il ruolo di indiani e cow-boy nella corte della mia scuola parigina», dichiara con tono benjaminiano il curatore Jean-Louis Cohen, che nelle sale del Cca mostra l’esito di un poderoso «cantiere collettivo» costruito su una nutrita serie di seminari svoltisi nell’arco di oltre quindici anni in due continenti. Oltre trecento documenti che aspirano tanto a esaurire l’argomento quanto a inaugurare un nuovo orizzonte di ricerca a partire da un’ovvia constatazione: i racconti storici sull’architettura del ventesimo secolo non considerano mai la guerra propriamente detta o, se lo fanno, la propongono esclusivamente sotto il profilo della ricostruzione. Per Cohen, al contrario, il conflitto «lontano dall’essere un vuoto oscuro nella storia dell’architettura del ventesimo secolo, é un processo complesso di trasformazione che impegna tutte le componenti dell’architettura, mobilitata nella sua totalità». L’interpretazione di questa trasformazione della cultura professionale, «implica l’aggiornamento di una densa rete di episodi a volte senza altra relazione apparente che la loro prossimità temporale».
Aperta da due grandi panorami fotografici che ritraggono le distruzioni di Guernica e Hiroshima (a enunciare i limiti temporali del periodo trattato) e da un cenotafio che raccoglie i ritratti di alcuni degli architetti coinvolti nel conflitto, la mostra organizza un mondo di biografie per «cronotopi», ponendo le prospettive dei belligeranti in parallelo rispetto ai differenti «teatri» del conflitto (città in guerra/guerra in città, trasformazione delle infrastrutture di produzione, fortificazione dei territori e mobilità, difesa antiaerea, gigantismo e standardizzazione, dalla guerra alla pace). Emergono le evidenti affinità e le opposte ideologie tra due visioni, all’interno delle quali i ruoli degli architetti appaiono ricchi di ombre e responsabilità. Nella visione dell’Asse Roma-Berlino-Tokyo, volta all’annessione e subordinazione dei territori conquistati in funzione di un avvenire di oppressione (e della quale l’esempio principe, esposto in tutta la sua valenza di programma definitivo, è il Piano di azione economica e urbanistica per l’agglomerazione di Auschwitz, dell’ottobre 1942), gli architetti appaiono essenzialmente riuniti in equipe paramilitari. Nella prospettiva degli alleati, non limitata alla mera «ricostruzione» (termine francese usato dopo il 1918), ma iscritta «in una visione d’insieme di una modernizzazione al tempo stesso tecnica e sociale», gli architetti si fanno veicolo di un mondo a venire. Con l’eccezione del mondo sovietico, dove fino al 1954 vige la dottrina del realismo socialista, l’alleanza tra modernità estetica e modernizzazione tecnica e sociale diventerà dappertutto duratura.
Tutt’altro che una parentesi questa guerra, la cui ombra si estende fino al terzo millennio, cristallizzando e accelerando al tempo stesso la storia e l’architettura.. È così che «Architecture in Uniform», incontra un illustre precedente nelle stesse stanze del Cca, ovvero «Scene of a world to come: European architecture and the American challenge, 1893-1960», con la quale il medesimo curatore, a metà anni novanta, aveva cercato di mettere a punto quel metodo storico «transatlantico» per lo studio dell’influenza dell’americanismo sulle culture architettoniche moderniste europee, e su quelle sovietiche in particolare.
Essenziali, al fine di meglio comprendere la mostra che, come afferma il direttore del Cca Mirko Zardini, «rappresenta un’ulteriore tappa del recente lavoro del Museo per mettere in questione le ipotesi di fondo del pensiero progettuale contemporaneo», sono i ringraziamenti espressi dal curatore, fra cui quelli a Pierre-Édouard Latouche, eccezionale conoscitore delle collezioni del Cca che ha arricchito l’esposizione e il catalogo che l’accompagna.

«Architecture in Uniform. Designing and Building for the Second War», a cura di Jean Luis Cohen, Centre Canadien d’Architecture, Montréal, fino al 18 settembre
 
 

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Last modified: 10 Luglio 2015