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Written by: Professione e Formazione

Doshi, Pritzker fuori dal coro

Doshi, Pritzker fuori dal coro

Commenti a margine del conferimento del premio Pritzker all’architetto indiano di 91 anni, collaboratore di Le Corbusier e Louis Khan. Un’edizione flash back che ha premiato un protagonista eccentrico

Il premio Pritzker 2018 è stato assegnato a Balkrishna Doshi, architetto indiano di 91 anni per lo più sconosciuto alle nuove generazioni. Guardando i precedenti vincitori degli ultimi vent’anni sembra un’assegnazione molto strana che potrebbe far riflettere su una sorta di stallo dell’architettura contemporanea: infatti a parte nel 2015 con il premio a Frei Otto, che comunque rappresenta un’elite intellettuale che ha fatto scuola, tutti i vincitori sono in piena sintonia con le tendenze architettoniche dell’anno premiato, mentre Doshi è molto legato ai principi fondativi dell’architettura moderna che risalgono ad un’epoca ormai passata. Le sue opere sono chiaramente influenzate da Le Corbusier con cui ha collaborato anche per il progetto “testamento” di Chandigarh, e da Louis Kahn con cui ha collaborato per i progetti realizzati in India che hanno reso celebre l’architetto americano. L’esperienza con i due maestri ha segnato il suo lungo percorso professionale, sviluppato quasi esclusivamente in India e chiaramente visibile in uno dei suoi primi progetti: l’Institute of Indology a Ahmedabad nel 1962. Possiamo riconoscere in questa opera i principi lecorbuseriani, trovando straordinarie analogie “brutaliste” con realizzazioni dello stesso periodo europee, latino-americane e africane. Tra il 1950 e il 1970 si è indubbiamente diffusa la parte più nobile dell’Internationl style, in seguito completamente snaturata da moltissime mediocri realizzazioni. Durante questi anni Doshi ha cercato una propria strada, cadendo però saltuariamente in una ricerca formale troppo forte, come per i progetti del Tagore Memorial Hall o del Premabhai Hall a Ahmedabad del 1976.

Architetto impegnato nella costruzione della nuova società indiana, Doshi ha realizzato numerose opere pubbliche istituzionali, tra cui spicca l’intervento per le case sociali di Aranya nel 1989 per una comunità di 80.000 persone, dove l’attenzione e la cura dell’interrelazione tra spazio abitato e spazi esterni stimolano l’integrazione sociale in un contesto molto difficile e di straordinaria densità. Successivamente ha lavorato anche ad opere private in cui però i progetti sembrano perdere forza, e probabilmente anche i materiali utilizzati più ricchi non sembrano far parte del suo processo progettuale più brillante.

Ciò che rende particolarmente interessanti i lavori di Doshi è la capacità d’integrare i principi modernisti con le tradizioni indiane, inserendo elementi, materiali e tecnologie locali con un approccio mai rigido né banale. In La Rivelazione, articolo pubblicato sulla rivista “Spazio&Società” (n.69, 1985), l’architetto indiano racconta come è nato il progetto Gufa di Ahmedabad, una galleria d’arte ipogea realizzata per l’artista Maqbool Fida Hussain concepita, dopo anni di titubanze e incontri con il committente, durante un sogno in cui gli apparve un Kurma [che significa “tartaruga” e, secondo la mitologia indiana, è la seconda delle dieci incarnazioni di Vishnu; n.d.a.]. L’interno la galleria è un’esplosione di plasticismo dove tutto si fonde in un unico spazio organico come un essere “vivente”, ed è difficile non pensare alla chiesa di Ronchamp di Le Corbusier, pur nella completa diversità concettuale. Anche il suo studio ad Ahmedabad realizzato nel 1980 è un omaggio all’architetto svizzero-francese, con i grandi spazi delle volte a botte e i decori colorati che stimolano il connubio tra moderno e tradizione. In questo studio, come in quelli di Oscar Niemeyer o Kenzo Tange, sono transitati e hanno lavorato numerosi giovani architetti di tutto il mondo, partiti alla ricerca dei principali allievi di Le Corbusier.

Una testimonianza interessante che spiega la differenza tra la nostra cultura e quella orientale riguarda una riunione di lavoro in cui Doshi, guardando il plastico di un progetto, con una straordinaria calma ne prende un pezzo, lo osserva e lo capovolge di 90° e, tra lo sbigottimento del giovane architetto italiano con cui stava dialogando, mormora: «Così è più interessante!».

Autore

  • Mauro Manfrin

    Nato nel 1963 e laureato al Politecnico di Milano nel 1988, dal 1986 al 2000 collabora con Giancarlo De Carlo e Giuliana Baracco nella redazione di «Spazio & Società» e nello studio di architettura. Dal 1997 al 2004 collabora con Alberto Mioni all'insegnamento della progettazione urbanistica, al Politecnico di Milano e all'Accademia di Architettura di Mendrisio. Dal 1992 al 1996 è associato nello Studio BauQ e LLM, mentre in seguito come libero professionista collabora per singoli progetti con numerosi studi tra cui Pierre Riboulet, Amedeo Petrilli e DAP Studio. Vincitore di quattro concorsi e segnalazioni in Italia.

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Last modified: 14 Marzo 2018