Il Padiglione del Perù illustrerà il «Plan Selva», programma per la costruzione di centinaia di scuole nella foresta tropicale. Intervista al curatore Jean Pierre Crousse
Che significato e rilevanza ha la scelta di un curatore (e di un Leone d’oro) latinoamericano per la Biennale di Architettura 2016?
Non è casuale. Questo fatto corrisponde a un’attenzione crescente verso l’America Latina. Attenzione che comincia con la crisi economica del 2008 e ha il suo punto culminante nella mostra al MoMA di New York «Latin America in Construction: Architecture 1955-1980» nel 2015, che compensava l’assenza dell’architettura latinoamericana in quel museo dal 1955. Con la mostra il vuoto è stato però solo parzialmente colmato. Poi c’è il Premio Pritzker, che non è esente da questa realtà. Qualche anno fa si guardava all’Asia e il premio lo vinse un cinese, ora che si guarda all’America Latina ha vinto Alejandro Aravena. Corrisponde insomma a una tendenza generale. È una buona notizia perché il fatto che Aravena dirigerà anche la Biennale di Architettura di Venezia fa sì che la presenza latinoamericana in questa edizione sarà importante.
Veniamo al tema del Padiglione peruviano di cui è curatore: perché presentare il «Plan Selva» alla Biennale?
Il «Plan Selva» è un progetto che propone la costruzione di centinaia di scuole nella foresta amazzonica peruviana. Costruire scuole in luoghi rurali si fa già in tutto il mondo, ma che cosa c’è di diverso in questo progetto? Esso inaugura un nuovo paradigma circa lo sguardo del mondo su questa regione. Se il mondo cerca di preservare i boschi tropicali mediante la conservazione della sua ricchezza biologica, il Perù vuole ora preservarla anche mediante l’educazione. Ma prima dobbiamo “immergerci” in questa realtà, entrare sensorialmente in un territorio indomabile e di difficilissimo accesso. Che è anche una visione che la società occidentale si è costruita su questa regione. Questo lo facciamo con interpretazioni che provengono dal campo delle arti. Abbiamo scelto l’esperimento fotografico di Roberto Huarcaya che ha portato nella foresta fasce di pellicola fotosensibile, lunghe 30 metri, impressionandola con una lampada e lasciando che la natura tatui le sue tracce sulla pellicola stessa. Ci è sembrato che fosse un buon modo d’immergersi nell’incommensurabilità della foresta. Abbiamo scelto anche le foto di Musuk Nolte, che ritrae la popolazione indigena con incredibile espressionismo. Elementi che fanno capire questo territorio e l’enorme differenza che c’è fra la realtà attuale e la trasformazione che il «Plan Selva» comporta. Qui siamo in una regione in cui laddove le scuole vi siano, il percorso medio di ogni bambino per arrivarvi da casa è di 5 ore e mezzo, a piedi e in barca. I bambini fanno spesso lezione con l’acqua che arriva fino alle ginocchia: alcune scuole sono inondate sei mesi l’anno. Abbiamo voluto raccontare questa realtà, in modo indiretto e senza melodrammi. Mostreremo tavole e sedie venute dai confini dell’Amazzonia che raccontano da sé la drammatica condizione. Vogliamo immergere il visitatore nell’esperienza della foresta attraverso pareti curve che creano spazi compressi e ambienti più grandi. Entrando nella mostra si sente il suono degli icaros, canti tipici della popolazione amazzonica di voce pura, senza strumenti musicali, che hanno come sottofondo i suoni naturali della foresta. Tutto l’allestimento è interamente sospeso. Tutto viene legato e sospeso a delle corde, in equilibrio, e niente tocca il pavimento. Se solo si toccano le pareti, queste si muovono leggermente, fatto voluto perché si capisca che dipende dal visitatore mantenere il fragile equilibrio. Il «Plan Selva» sarà poi mostrato in modo rigoroso attraverso piante, prospetti, sezioni, plastici. Ci sarà anche uno spazio per la partecipazione del visitante nella costruzione ludica delle scuole.
In che modo le scuole trasformeranno la realtà degli abitanti?
Per il Perù, l’Amazzonia costituisce una frontiera, fisica e mentale. Finora è sempre stata la frontiera dove tutto finisce: la presenza dello Stato e l’interesse della società civile. Eccezion fatta per i grandi agglomerati economici e per gli interessi illegali generati dall’estrazione senza limiti delle materie prime (prima il caucho, poi il petrolio, il legno, l’oro) da un territorio che è visto ancora come fonte inesauribile di ricchezza. In questa visione dell’Amazzonia, l’abitante indigeno autoctono non è mai esistito come attore, pur subendone tutti i malori. Queste scuole non rappresentano solo l’opportunità di migliorare la loro qualità di vita, in un intervento senza precedenti dello Stato. Il «Plan Selva» predispone anche gli spazi per un incontro più equilibrato tra il mondo occidentale e il mondo ancestrale che esiste ancora, con tutti i suoi saperi. Il Perù possiede 47 lingue native delle quali 43 provengono dalla selva amazzonica. Il piano vuole ricostruire la grammatica di tutte queste lingue. È un programma multiculturale in cui dalle scuole elementari s’insegnerà la lingua locale, affinché la gente possa scrivere e trasmettere agli altri questa preziosa conoscenza. Significa poi dare dignità alla lingua e alla cultura di queste persone. Le classi delle scuole sono anche locali comunali, in cui le comunità potranno riunirsi. Se l’Amazzonia, insomma, è una frontiera per il Perù, è anche un fronte per il mondo: si tratta dell’ultimo fronte tra questi due mondi. Gli abitanti amazzonici vogliono appartenere alla società e svilupparsi, non vogliono isolarsi. È un incontro che deve avvenire in modo equilibrato, che non consiste nell’“occidentalizzare l’indigeno” ma nel permettergli di essere un attore nella costruzione della società contemporanea, senza perdere la nozione delle proprie origini. Se riflettiamo, ad esempio, sul fatto che soltanto il 5% delle piante della foresta tropicale è stato studiato e che già il 25% degli ingredienti che servono a combattere il cancro provengono da queste piante, l’opportunità è davvero fondamentale per il mondo. Non vogliamo più che gli scienziati facciano ricerca in base alle conoscenze indigene, vogliamo che gli indigeni abbiano l’opportunità di diventare scienziati e conducano le ricerche. Queste scuole aiuteranno, nel tempo, a cambiare la situazione, ma questo cambio di paradigma deve cominciare ora.
La preoccupazione è che il governo che ha promosso il piano sta concludendo il suo mandato, mentre la realizzazione delle scuole è appena cominciata e le elezioni si stanno avvicinando. Che cosa succederebbe al «Plan Selva» se cambiasse il colore politico del nuovo governo?
Sono prudentemente ottimista. Ci sono vari candidati che hanno detto che, una volta eletti, manterranno la continuità di governo del territorio. Il «Plan Selva» è già stato approvato ed è in corso di realizzazione. Si stanno costruendo ottanta scuole, dieci delle quali sono state appena concluse. Il giorno dell’inaugurazione della mostra a Venezia vogliamo presentare queste dieci scuole terminate con i bambini che fanno lezione. Ora si stanno costruendo le successive settanta. Si tratta di un processo quasi irreversibile, anche se in un paese come il nostro tutto è reversibile. Ci vorrebbe un’importante volontà contraria al progetto per fermarlo. Non so se all’estero ci si rende conto che il grado d’innovazione è enorme: ricostruzione grammaticale di lingue native mai decifrate finora, un nuovo programma multiculturale e l’incorporazione alla cultura peruviana del sapere indigeno in un piano statale d’insegnamento. Inoltre è importante ricordare che oggi la legge peruviana obbliga a bandire una gara d’appalto per ogni singola scuola. Con il «Plan Selva» è stata cambiata la legge e ora si può bandire una gara d’appalto per più scuole contemporaneamente. Quindi una sola impresa può costruire dieci o venti scuole. Prima era impossibile perché nessuno voleva costruire una scuola in un luogo perduto della selva amazzonica con una responsabilità di governo. Le difficoltà sono immense. Per fare un esempio, il legno dell’Amazzonia non si può usare perché non è certificato, per cui bisogna portarlo a Lima, unico centro certificatore, e poi riportarlo indietro nella foresta. Fare altrimenti, in un progetto a grande scala, significa incentivare l’abbattimento illegale della foresta. Pertanto finora era economicamente impossibile che un’impresa edile venisse da Lima in otto ore di barca nella foresta per costruire una piccola scuola. Lo Stato è di fatto impossibilitato a costruire in questo luogo nella maniera in cui possono costruire i locali. Le scuole, modulari, sono realizzate con un kit di montaggio in diverse fogge che si adattano al tipo di comunità, alla topografia e al clima. Il progetto del «Plan Selva» standardizza la qualità del processo e si adatta alla realtà di ogni comunità, secondo spazi immaginati dagli abitanti, dai docenti, dagli antropologi, dai sociologi e dagli architetti.
Sandra Barclay e Jean Pierre Crousse sono nati entrambi in Perù e si sono formati fra il Perù, la Francia e l’Italia. Lo studio Barclay & Crousse, originalmente situato a Parigi, viene fondato nel 1994. Nel 2006 aprono il proprio studio a Lima, continuando l’attività in Francia con il nome di Atelier Nord-Sud. I loro progetti, che in maggioranza si trovano in Francia e in Perù, si caratterizzano per l’integrazione con il paesaggio naturale e costruito attraverso un’approssimazione razionale, economica e sostenibile. La qualità degli spazi, della luce e dell’uso nei loro edifici nasce da una riflessione concettuale, in cui l’essere umano e la qualità della vita sono sempre temi centrali del loro lavoro. Fra i loro principali progetti: Il museo Malraux du Le Havre (1994-97); la scuola di arti visuali Corriente Alterna, Lima, 2012; il Lugar de la Memoria, 2010-15). Hanno vinto riconoscimenti nazionali e internazionali. La loro opera è stata pubblicata sulle più importanti riviste internazionali.
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Last modified: 18 Maggio 2016
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