In Italia le scuole di Design, ben prima di diventare scuole universitarie, erano il regno del «saper fare». Elaborando e rielaborando vi si imparava a progettare. Professionisti con il sacro fuoco della maieutica staccavano le ore serali dallufficio o dallufficio tecnico dellimpresa per andare a insegnare: questi erano i professori di Design fino alla metà degli anni ottanta.
Poi nelle facoltà di Architettura sono state aperte le cattedre di Progettazione artistica per lindustria, fra le scuole private è arrivata la Domus Academy e si è così iniziato a diffondere il sapere del progetto. Il discorso sul progetto ha avuto subito fortuna sia perché era fatto di ragionamenti «attuali ed intelligenti», sia perché quel sapere riannodava «saper fare» e «saper essere», iniziando a formare lo status del progettista di Design. E per certi versi era lossatura del «saper essere» perché tentava di spiegare, tra laltro, il motivo per cui trattare del progetto era fare del Design uno strumento di cultura sociale e politica per il nostro futuro. Che fossero i prodromi dellintelligenza sostenibile Ezio Manzini, la cultura dei processi e dei sistemi merceologici e degli indotti produttivi di Alberto Seassaro, i pensieri sulla relazione tra progetto e modernità Thomás Maldonado, le annotazioni sulla relazione tra arte, artigianato colto e industria di Andrea Branzi, erano comunque visioni che collegavano la prassi al pensiero intellettuale.
Allinizio il pragmatismo terra terra, a volte un po zotico, di alcuni professionisti del Design creava un poco di imbarazzo, ma strada facendo è avvenuta una selezione naturale fatta sul campo della formazione e tra i professionisti sono rimasti quelli che non erano troppo legati al cosiddetto «pensiero corto», un modo di liquidare il pensiero colto dicendo che non cè il tempo o non ci sono gli spazi e dunque «si fa così e basta».
Strada facendo sono venuti meno, spesso a causa di quiescenza, anche i grandi teorici ancien regime, quelli che un progetto vero non lo avevano mai fatto in vita loro, ma che sul progetto avevano scritto ventisette libri.
Ora una delle sfide contemporanee per la formazione nel campo del Design è, a mio avviso, quella di riuscire a continuare a battere la strada del discorso sul «saper essere» progettisti. Un modo potrebbe essere quello di salvaguardare lo spazio del progettare, ossia i laboratori che nelle scuole del Design e nelle facoltà universitarie rischiano di soccombere alle restrizioni del ddl Gelmini (subito interpretato dagli ingegneri come soluzione filosofica della semplificazione coatta, e dunque positiva). Ma nel contempo potrebbe essere utile dare vita a «cattedre ambulanti» come quelle che diedero vita alla rivoluzione dei processi agricoli e alla modernizzazione del settore nellItalia del primo Novecento. Immaginiamo un processo che permetta ai professori di Design di essere accolti nelle imprese italiane «di ogni ordine e grado» a portare il verbo del Design dentro alle trincee della produzione, laddove, ancora troppo frequentemente, sembra ancora un mistero santissimo.
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