Un film di Francesco Sossai dipinge un territorio complesso. “Le città di pianura” racconta di paesaggi, di architetture e di storie ai confini della realtà
Presentato al 78° Festival di Cannes nella sezione “Un Certain Regard” “Le città di pianura” di Francesco Sossai dal 2 ottobre è nelle sale di tutta la penisola con il plauso della critica che tributa al regista bellunese, classe 1989 (alla seconda prova dopo “Altri cannibali”, 2021), la capacità di restituire un autentico e disarmante ritratto della sua terra d’origine.
Un perenne stato di spaesamento
Una sorta di road movie è stato definito, che dal vittoriese scende nella pianura trevigiana e patavina toccando Venezia per poi ritornare in quell’area delle prealpi bellunesi da cui arrivano gli stessi protagonisti. Carlobianchi (Sergio Romano) e Doriano (Pierpaolo Capovilla) trovano nell’ebbrezza alcolica l’unica temporanea fuga ai propri fallimenti esistenziali ed umani, ad un perenne senso di spaesamento in un presente intessuto di nulla, dove “bere l’ultima”, serve a prolungare una notte che non sembra mai finire. L’indomani devono andare a prendere in aeroporto l’amico di sempre nonché ex collega Genio (Andrea Pennacchi), fuggito in Brasile da anni perché complice, come loro, di furti nella fabbrica di occhiali dove i tre lavoravano. Il fine: rivendere illegalmente la refurtiva e accumulare quanto basta per un personale tesoretto. Ma rassegnarsi all’arrivo dell’alba e all’ultimo bicchiere non è facile e così i due a bordo di una vecchia Jaguar finiscono a Venezia dove in Campo dei Tolentini, sconsolati per aver trovato chiuso l’ultimo bacaro s’imbattono in Giulio (Filippo Scotti), giovane studente di Architettura allo IUAV, trascinandolo nel loro vagare senza meta.
Perso l’appuntamento con il volo di Genio, perché nella testa dei due protagonisti gli aeroporti di Treviso o Venezia sono un po’ la stessa cosa, inizia un percorso di rocambolesca perdizione ma dalla vitale leggerezza attraverso un territorio in cui smarrirsi, dove “Rovigo non esiste” e alla campagna incolta s’alternano villette a schiera o bifamiliari costruite nel nulla, “ai confini della realtà”, adornate da quell’esotica presenza del palmizio veneto. Visioni note e ben indagate in passato (come il fenomeno del capannonismo, sebbene qui non preponderante) anche attraverso sensibili “osservatori” come il Festival F4 di Fotografia (Pieve di Soligo).
“Non rimarrà più nulla di questa regione”
Nell’attraversamento di un paesaggio oramai deprivato di un’identità si materializza villa Roberti (Brugine, Padova), in cui i tre capitano per caso. Fingendosi gli architetti attesi per un sopralluogo, scopriranno che il suo parco è minacciato da una delle tante infrastrutture essenziali per lo sviluppo del territorio. Sequenza esilarante in cui però le parole del conte raggirato suonano come verità senza retorica: “Distruggeranno tutto. Non rimarrà più nulla di questa regione. Solo un’enorme infrastruttura e nessun posto dove andare”. Compaiono anche, come un’epifania, la Tomba Brion (San Vito d’Altivole) che Giulio ha tanto studiato e che vede per la prima volta, la devozione per Carlo Scarpa, il cantiere abbandonato delle ennesime villette a due piani, il bar come unico luogo di socialità, l’edilizia anonima degli anni Sessanta e Settanta dagli interni poveri e dove occhieggia appesa qualche soppressa.
Un quadro che ci restituisce tutte le contraddizioni di un territorio trasformatosi troppo in fretta e ancora in continua mutazione, spaziando dalla placida superficie lagunare all’alba sino alla campagna a tratti sempre uguale: nulla di nuovo per chi lo conosca; senza dubbio un ritratto fedelissimo e in parte scomodo per chi voglia andare oltre ad uno stereotipo da cartolina o all’immagine di sviluppo economico in continua ascesa dove lavoro e denaro rimangono l’unico imperativo.
Obiettivi, sguardi e culture
Ma a fare da protagonista insieme al contesto, è il ritratto dei personaggi che lo abitano. Sbagliato sarebbe considerare quella di Dori e Carlobianchi un’eccessiva caratterizzazione così come sarebbe sbagliato considerare la loro perdizione esistenziale come prodotto di una sottocultura. Perché il loro stesso spaesamento fatto di eccessi e di mancata integrazione non è in fondo lontano da quello di un certo precariato culturale (magari di chi è fuggito all’estero e poi rientrato) che non potendo più essere riammesso all’interno di uno status sociale definito si ritrova ad attingere all’unica linfa vitale disposta a rivolgere uno sguardo ancora accondiscendente: le giovani generazioni.
Prevale, su tutto, il sentimento dell’amicizia (fatta anche di rimpianti e luoghi perduti, di vecchie polaroid in una scatola di Baicoli), la travolgente schiettezza di gesti e moti dialettali (accompagnati dalla colonna sonora del cantautore veneto Krano, Marco Spigariol) di due cinquantenni troppo occupati a vivere il presente per pensare al proprio futuro e che, alla fine, aiuteranno il giovane Giulio a liberarsi delle piccole resistenze di una troppo saggia giovinezza.
È un Veneto raccontato non attraverso la caustica prosa di Francesco Maino (Cartongesso, Einaudi, 2014) e quella priva di compromessi di Vitaliano Trevisan. Ma attraverso uno sguardo che se da una parte ci fa sentire ancora una volta impotenti e rassegnati, dall’altra ci lascia con il sorriso dolceamaro mentre osserviamo accelerare il regionale veloce con destinazione Verona, in attesa che venga costruita la surreale nuova autostrada Lisbona – Treviso – Budapest.
Immagine di copertina: Le città di pianura (foto di Simone Falso, © 2025 Vivo film Maze Pictures)
“Le città di pianura”
di Francesco Sossai, 2025, Italia, 100 minuti
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Carlo Scarpa , cinema , film , Francesco Sossai , Le città di pianura , Tomba Brion , veneto
Last modified: 18 Ottobre 2025