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Tommaso MauroWritten by: Città e Territorio Forum

L’archiviaggio. Ahmedabad, terra di incontri

L’archiviaggio. Ahmedabad, terra di incontri
Nella città indiana del Gujarat, tra memorie di Gandhi, rovine di Le Corbusier e Kahn, tanti progetti di Balkrishna Doshi

 

AHMEDABAD (India). Con un effetto scenografico barocco, l’enorme bacino d’acqua del Sarkhej Roza si staglia davanti a noi nella sua placida vastità. Da quassù, dal terrazzo che si apre tra le alte pareti perimetrali e gli spazi più sacri della moschea, è facile immaginare i milioni di fedeli che, fin dal Quattrocento, trovavano ristoro dopo le lunghe traversate dalle campagne alle porte di Ahmedabad.

Edificato durante il regno del 7° sultano del Gujarat, Mahmud Shah I, il complesso era un tributo alla sua guida religiosa. All’epoca sorgeva nell’aperta campagna fuori dalla capitale del sultanato; oggi invece è nel tessuto sfilacciato tra periferia e zone ancora agricole. Nella vasca artificiale per la raccolta delle acque monsoniche, i pellegrini si abbeveravano e si rinfrescavano prima dei festeggiamenti religiosi tra le strette vie del centro storico. Ahmedabad, oggi come allora, si trova in una posizione strategica dello stato del Gujarat. Adagiata lungo le sponde del fiume Sabarmati, in un’area fertile tra il Mar Arabico e le zone aride di Rajastan e Pakistan, è stata capitale economica e politica dello stato federale fino al 1970. Nonostante abbia perso questo titolo, resta uno dei più rilevanti centri industriali dell’India.

 

Tradizioni resistenti e politiche di rinnovamento

Che questa città dell’ovest indiano stia scalpitando per assicurarsi un posto nel miracolo economico indiano, lo si può intuire mentre ci si muove tra il Sarkhej Roza e il centro storico (Patrimonio UNESCO dal 2017). La metropoli cresce e si riorganizza: angusti e precari agglomerati urbani vengono demoliti per lasciare spazio a trafficate strade costellate da enormi statue propagandistiche, nuovi complessi residenziali e ristrutturazioni. Il centro, fortunatamente, resiste a queste pressioni. I vincoli patrimoniali e la densità abitativa tengono lontani gli investitori, e tra i vicoletti si possono ancora ammirare i pol, tipici cluster abitativi dove, dietro facciate finemente decorate e intorno a una corte, si riunivano le famiglie in base alla loro casta.

Oppure, dove si aprono degli spiazzi, puoi incontrare un chabutaro, intarsiata mangiatoia per uccelli, che mantiene costante la presenza di volatili nonostante l’assenza di alberi. In una nazione religiosamente complessa come l’India questo tentativo di ribilanciamento ecosistemico incontra anche le prassi rituali: per alcune confessioni gli animali sono delle divinità a cui lasciare tributi. I 20 anni da governatore federale dell’attuale primo ministro Narendra Modi (nativo di questa regione) hanno trasformato il Gujarat nella sua roccaforte elettorale. Non a caso qui si vedono importanti esempi di come architettura e politica possano andare a braccetto, a partire dal Sabarmati Riverfront con la canalizzazione delle acque e la creazione di sequenze ordinate di parchi e spazi pubblici.

 

Un patrimonio moderno fragile, ma c’è Doshi

Questi prepotenti venti di cambiamento hanno soffiato anche sul patrimonio: sono giunte fino a noi le notizie sull’intenzione di demolire la villa Shodhan di Le Corbusier (per speculare su quel lotto incastonato tra palazzine per uffici) o di eliminare la maggior parte dei dormitori dell’Indian Institute of Management di Ahmedabad (IIMA), progetto di Louis I. Kahn. Se la villa di Le Corbusier si può vedere solo dall’alto approfittando della gentilezza di chi ha gli uffici che affacciano sul giardino dell’ultima signora rimasta ad abitarci, riuscire a visitare l’università è diventata una missione impossibile: le polemiche hanno portato la direzione a sospendere gli ingressi e nemmeno conoscere qualcuno degli alunni è condizione sufficiente per accedervi.

È difficile visitare anche il Centre for Environmental Planning and Technology (CEPT), progettato da Balkrishna Vithaldas Doshi: il poco tempo messo a disposizione ai visitatori (se accettati) non permette di esplorare tutto il campus. Anche qui, nel 2015, ci sono state forti proteste per l’intervento di riorganizzazione con l’inserimento della biblioteca progettata da RMA Architects. Al di là delle comprensibili critiche di principio, lo studio RMA è riuscito a portare all’interno del progetto la complessità urbana con cui Doshi aveva disegnato gli altri fabbricati. L’intervento nulla toglie all’edificio originale: la capacità di fronteggiare le necessità climatiche e i limiti tecnologici e costruttivi dell’India degli anni Sessanta dà forma a una scuola dal forte carattere urbano e capace di insegnare l’architettura vivendola.

Subito fuori le mura del campus è possibile visitare liberamente la galleria d’arte Amdavad Ni Gufa. Progettata negli anni ‘90 da Doshi per accogliere le opere dell’artista Maqbool Fida Husain, è la risposta architettonica a una conversazione tra il progettista e l’artista sulla possibilità di coesistenza tra arte e architettura in una struttura che modifica il paesaggio. Ne risulta un’opera che dialoga anche con l’ambiente in cui si inserisce, rispondendo alle difficoltà climatiche grazie ai benefici dell’architettura ipogea.

Doshi si era trovato ad affrontare queste tematiche di progetto già una decina di anni prima nella progettazione del suo studio, il Sangath. Anche in questo progetto, il confine tra architettura e paesaggio costruito si assottiglia. Sembra impossibile che tra grattacieli, baracchini, clacson, il roboare di tuk-tuk e automobili e lo stridere dei binari sospesi della metropolitana ci sia un luogo il cui silenzio e concentrazione sono paragonabili ai luoghi sacri. Una nuova leva dello studio si offre di farci da guida: gli occhi sognanti con cui ci racconta la bellezza degli spazi progettati da Doshi (lo studio prosegue la sua attività nonostante la morte dell’architetto avvenuta nel 2023) ci hanno permesso di vedere gli ambienti con l’amore di chi li vive e ne percepisce la profondità e l’eredità. Sangath non a caso significa “muoversi insieme”, concetto che permane in chi porta avanti l’eredità del Maestro premiato con il Pritzker del 2018.

 

Le rovine di Le Corbusier

Non godono delle stesse attenzioni riservate alle architetture di Doshi quelle di Le Corbusier. Il Mill Owner’s Building è ormai un’affascinante rovina in cemento armato: se ne sta lì, vuoto, e lentamente cede ai gocciolii dell’umida Ahmedabad. Il custode ci apre e ci lascia liberamente visitare la struttura che, dopo 70 anni di servizio, sembra l’herzoghiana nave di “Fitzcarraldo” ormeggiata sulla trafficata Ashram Road.

In stato di rovina è anche il museo Sanskar Kendra. Ora è chiuso al pubblico, inavvicinabile e sotto stretta sorveglianza. Il museo della città di Ahmedabad era parte dell’iniziativa promossa dell’amministrazione cittadina che prevedeva la realizzazione di un centro culturale per Ahmedabad, a cui si aggiungeva il Tagore Memorial Hall, progettato nel 1961 e realizzato tra il 1966 e il 1971, su progetto di Doshi. Questi restano – ad oggi – gli unici due progetti realizzati del centro culturale.

Ora il Tagore Memorial Hall si trova a pochi passi da una delle zone maggiormente riqualificate grazie all’intervento sul riverfront. È aperto al pubblico e animato da numerose attività culturali. Severo e scultoreo, è dedicato allo scrittore bengalese Rabindranath Tagore e nella sua plasticità ci racconta le speranze che, anche in questo paese, sono state riposte nell’uso del cemento armato. Le stesse speranze e necessità tecnologiche hanno guidato il progetto dell’Institute of Indology e del confinante Lalbhai Dalpatbhai Museum, nella zona universitaria. L’esigenza di non esporre all’aria condizionata alcuni preziosi manoscritti ha imposto al progettista, ancora una volta Balkrishna Doshi, uno studio bioclimatico che permettesse una ventilazione naturale degli ambienti. Così nel 1962 viene inaugurata la sede dell’Istituto e nel 1985 quella del museo. Emergono chiaramente le influenze che il più celebre architetto di Ahmenabad ha assimilato durante le collaborazioni con Le Corbusier e con Kahn.

Lungo il fiume, le origini di Gandhi

Altra opera progettata da Doshi è la Premabhai Hall. Inaugurata nel 1972, aveva l’obbiettivo di creare una continuità tra il vibrante centro storico e gli spazi di un nuovo teatro. Ora è infelicemente chiusa al pubblico dal 1997 per problemi manutentivi e legati alla sicurezza antincendio. Ma mentre ci si muove per Ahmedabad, questa figura animaleggiante fa capolino più volte nel caotico brulicare di veicoli e uomini. Non a caso l’area in cui si inserisce si trova a cavallo tra le più recenti infrastrutture urbane e i più antichi insediamenti del centro. Si trovano le antiche porte d’ingresso della città da cui parte anche la Gandhi Road.

Da qui sono partite molte delle proteste del Mahatma Gandhi perché – fino ad ora non ne abbiamo parlato – Ahmedabad è la città in cui Gandhi, nativo proprio del Gujarat, fonda l’Ashram Sabarmati nel 1917. Posizionato lungo il Sabarmati – un tempo nella periferia della città, ora tra slums e condomini identici tra loro – era un luogo di preghiera e lavoro per la comunità che gravitava intorno alle teorie gandhiane.

Oggi l’Ashram Sabarmati è interamente dedicato alla memoria del Mahatma: oltre ai fabbricati più antichi del complesso, è stato edificato anche il museo Gandhi Smarak Sangrahalay. Progettato da Charles Correa e inaugurato nel 1963, è un omaggio alla semplicità costruttiva dell’ashram e una trasposizione modernista dei concetti dell’architettura induista e della cosmologia: la modularità (oltre a facilitare eventuali ampliamenti) vuole enfatizzare l’idea di come un singolo componente faccia parte di un tutto più complesso.

 

 

Visitare Ahmedabad permette un affondo tra le complessità e le contraddizioni dell’India, nazione in cui le dinamiche colonialiste e post-colonialiste continuano a mettere a dura prova i sempre più precari sistemi di coabitazione culturale e religiosa, soprattutto in queste zone di confine. Visto dall’alto, il Pakistan non è poi così lontano.

 

Immagine di copertina: Sarkhej Roza, Ahmedabad, India, 2025 (© Valentina Campana) 

Autore

  • Tommaso Mauro

    Architetto tra Bassano del Grappa ed Asiago. Dopo gli studi a Ferrara e São Paulo si laurea in Architettura nel 2019 con Alessandro Tessari, Romeo Farinella e Marcio Kogan con una tesi sul riassetto del viadotto Presidente João Goulart di São Paulo. Durante il percorso di formazione universitario ha partecipato a workshop internazionali come "DEEPBrera" (Politecnico di Milano e Accademia di Belle Arti di Brera), e "Horizonte Habana" (Università degli Studi di Ferrara e Universidad Tecnológica de La Habana). Nel 2016 ha co-fondato Järfälla con cui, oltre a sviluppare progetti d’allestimento e intervento artistico, edita l’omonima rivista. Dal 2017 è parte della redazione di "Artwort"

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Last modified: 24 Agosto 2025