La riedizione, a 40 anni dall’originale, di un libro di Jean-Louis Cohen consente una riflessione sulla cultura architettonica italiana
La frattura tra architetti e intellettuali, ovvero gli insegnamenti dell’italofilia, di Jean-Louis Cohen (1949-2023), è un prezioso lascito dell’architetto e studioso parigino che oggi annoveriamo tra i maggiori storici contemporanei dell’architettura.
Migrazioni di idee
Concentrandosi sul Novecento italiano, questo suo libro giovanile ora edito in italiano da Quodlibet (2024, 300 pagine, 25 €) ragiona sul processo di intellettualizzazione dell’architetto e dell’architettura. Si tratta di un processo che ha visto il nostro paese protagonista almeno a partire dagli anni venti e ancor più primo attore nel secondo dopoguerra, sino a toccare l’apice nel post 1968-pensiero su cui il racconto si conclude.
La prima edizione francese della ricerca di Cohen (integrata da una nuova introduzione: “Trent’anni dopo. Osservazioni retrospettive”) risale al 1984, ma la trattazione che l’allora architetto e ricercatore agli esordi vi sviluppa mostra un’inossidabile perspicacia.
L’interesse per i fattori intellettuali e ideologici della pratica architettonica annuncia peraltro quelli che ne saranno gli studi futuri, spesso intrecciati a importanti esposizioni, quali Architecture in Uniform. Designing and Building for the Second World War o Scenes of a World to Come: European Architecture and the American Challenge 1893-1960, dove a primeggiare è la finalità politica che presiede ai fenomeni architettonici.
Oppure Building a New World: Amerikanizm in Russian Architecture e Interférences/Interferenzen: Architecture Allemagne-France 1800-2000, dove la cultura architettonica viene disvelata attraverso il fenomeno delle sue migrazioni. Migrazioni di idee, appunto, come quella che Cohen poneva al centro della sua opera prima sugli insegnamenti dell’italofilia ad uso dei francesi al declinare del ventesimo secolo.
L’Italia al centro del mondo
Ma da dove vengono gli insegnamenti dell’italofilia che Cohen ci ricorda essere esplosi in Francia (e non solo) a partire dagli anni settanta? Dallo straordinario contributo italiano alla cultura architettonica lungo il Novecento, secolo in cui il nostro paese è stato protagonista senza pari, per esempio, nella produzione di riviste: dalle storiche “Casabella” e “Domus” fondate negli anni venti fino alle successive nel secondo Novecento quali “L’architettura. Cronache e storia”, “Parametro”, “Controspazio”, “Rassegna”, “Lotus”, “Hinterland”, “Zodiac”. E altre ancora, condotte da direttori quali Ernesto Nathan Rogers e Bruno Zevi, quindi Vittorio Gregotti, Guido Canella e altri.
Sono riviste affiancate da una pubblicistica imponente che, dai cataloghi di mostre, si dilatava in una saggistica agguerrita che da noi andrà via via configurando, forse meglio che in ogni altro paese, la nascita di una storiografia architettonica autonoma, di una storia e filologia dell’architettura, soprattutto moderna e contemporanea, scritta da architetti, non più affiliata a una tradizionale storiografia artistica dove da troppo tempo primeggiavano altre arti, la pittura sopra tutte.
Da qui l’utilità dell’italofilia, dei suoi insegnamenti che non parlavano tanto di funzione o tecnologia o dottrina formale, quanto piuttosto di morfologia urbana e territoriale, tipologia dell’organismo architettonico, memoria culturale, scambi con le altre arti, rapporto con la tradizione, confronto tra progetto e governo politico della città, del territorio.
Tutti temi abbondantemente attestati dalla vitalissima pubblicazione di riviste, dal formarsi di vere e proprie scuole nelle università (da Roma a Torino, da Milano a Venezia), dall’emergere di forti personalità insieme professionali, artistiche e teoriche (da Rogers, Gio Ponti, Ludovico Quaroni e Giuseppe Samonà a Zevi, Giancarlo De Carlo, Aldo Rossi e Gregotti) e di architetti storiografi (da Manfredo Tafuri a Paolo Portoghesi, da Roberto Gabetti ai più giovani, con cui lo stesso Cohen stringeva intanto amicizia e collaborazione nei suoi rapporti con l’Università Iuav di Venezia, Giorgio Ciucci e Marco De Michelis).
Sino alla partecipazione al discorso sull’architettura di filosofi, sociologi, storici e critici letterari quali Alberto Asor Rosa, Mario Tronti, Massimo Cacciari, Franco Rella, per limitarci al caso più emblematico e approfondito da Cohen, ossia la corte tafuriana con base nell’università veneziana, dove le analisi sull’architetto come intellettuale nella prassi confluivano di volta in volta in un discorso sull’architettura come ideologia nel racconto critico e storico.
Questo travaso della convenzionale indagine disciplinare in una storia come critica dell’ideologia architettonica trovò la massima affermazione nel post-1968 pensiero con la rivista “Contropiano”, pubblicata tra 1968 e 1971. Fondata dallo storico e critico letterario Alberto Asor Rosa e dai filosofi Massimo Cacciari e Antonio Negri, ospitava discorsi interdisciplinari sotto la protezione del pensiero marxista e della storia negativa, ma tra i molteplici contributi vediamo soprattutto emergere proprio il discorso sull’architettura come ideologia, nella convinzione che l’arte, o meglio la prassi architettonica, tracimando dalla dimensione disciplinare, andasse di continuo scandagliata nelle sue responsabilità, intenzioni, aspettative e aporie in quanto prassi intellettuale e politica.
Il ruolo di Gio Ponti
Sull’esemplare vicenda della rivista, tanto legata alla corte tafuriana concentrata nell’università veneziana, è ora disponibile l’approfondita e appassionata indagine di Matteo Trentini, “Per una storia negativa. «Contropiano» e l’architettura” (Quodlibet, 2022). Mentre da quella stessa fucina storiografica sempre con base a Venezia, riemerge a distanza di svariati lustri un’altra ricerca sinora documentata solo parzialmente in riviste e volumi collettanei.
Si tratta del libro di Annalisa Avon Gio Ponti. Ideario per la casa 1920-1945 (Giavedoni, 2024, 162 pagine, 24 €). Il libro, non a caso, è il risultato di una ricerca dottorale avviata dall’autrice presso lo Iuav alla fine degli anni ottanta con i supervisori Guido Zucconi e Giorgio Ciucci (che ha supportato anche la ricerca di Trentini).
Certo, si direbbe che la figura di Ponti sia poco in sintonia con i temi cari a una storia dell’ideologia architettonica, pur declinata in vari modi dai diversi autori, come quella che ci hanno trasmesso gli studi di Cohen, De Michelis e Tafuri sull’architettura sovietica, o di Ciucci sugli architetti e il fascismo.
Ma, nonostante la marginalità di Ponti rispetto agli architetti moderni più o meno ideologizzati e nonostante la pragmaticità affatto borghese del suo operato, anch’egli viene sezionato da Avon con i nuovi coltelli storiografici che i suoi professori andavano affilando, tanto da suggerirle di aprire l’Introduzione del libro dedicato al borghese Ponti con “due pagine dattiloscritte dal titolo Agli intellettuali”, datate agosto 1943, a firma di Franco Fortini, poeta e saggista alquanto engagé (testo inedito recuperato dall’autrice nell’Archivio privato della famiglia Ponti).
Il processo di intellettualizzazione dell’architetto e della connessa ideologizzazione dell’architettura, che Cohen ci ricorda essere stato il vettore che ha reso grande l’architettura italiana del Novecento, va dunque visto, come dimostrano le ricerche di Annalisa Avon e Matteo Trentini, anche nella sua funzione di mentore nella genesi e negli sviluppi, ancora oggi fertili, di una storiografia praticata da architetti-studiosi che hanno raccolto l’eredità degli architetti-intellettuali.
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cultura architettonica , gio ponti , Jean-Louis Cohen , libri , Novecento
Last modified: 11 Giugno 2025