Ricordo intimo dello storico dell’architettura, docente e curatore francese, affezionato ai progetti culturali vicini a quella histoire croisée che ha sempre praticato
È mancato ieri, in modo assurdo, Jean-Louis Cohen: per chi scrive più di un amico, per il mondo culturale che ruota intorno all’architettura lo studioso forse più eclettico.
C’incontrammo la prima volta alla Fondation Le Corbusier nel 1974. Due ragazzini, entrambi coinvolti da un mondo in cui politica, cultura, impegno erano tutt’uno. Senza quella matrice, poco si capirebbe della stessa sua produzione storiografica. Perché Cohen non è stato solo un grande studioso. Ha promosso e organizzato mostre tra le più suggestive. Ne voglio qui ricordare solo due, “Architecture in Uniform: Designing and Building for the Second World War”, prima a Montréal al Centre Canadien d’Architecture e poi a Parigi nel 2011, e “Interférences/Interferenzen: Architecture Allemagne-France 1800-2000”, a Strasburgo prima e a Francoforte poi, nel 2013. Due mostre in cui Cohen faceva dell’architettura il veicolo per trattare questioni come i mutamenti (e le accelerazioni) che la seconda guerra mondiale ha prodotto non solo in architettura; o il tema, delicatissimo, dei confini e delle interferenze che hanno fatto del corridoio lorenese uno dei più straordinari laboratori della modernità e del suo essere un conflitto, quasi permanente, tra i principali attori.
Ma Cohen non ha avuto solo successi. Incaricato nel 1999 del progetto culturale della Cité de l’architecture a Parigi, venne bruscamente e malamente sostituito nel 2001. Quella fu forse una delle concause per cui scelse di trasferirsi negli Stati Uniti, dove ancora oggi era Sheldon H. Solow Professor in the History of Architecture at the Institute of Fine Arts alla New York University. Nel Nordamerica, Cohen è stato membro influente nelle grandi istituzioni che anche di architettura si occupano (CCA e Getty). La prima mostra citata e l’edizione critica del testo più noto di Le Corbusier, Vers une Architecture (2008), ne sono due importanti testimonianze.
Le Corbusier peraltro è stato, insieme all’architettura russa, dalla Rivoluzione in poi, uno dei temi più ricorrenti e alle volte mischiati, come nel suo libro del 1987 (l’anno centenario della nascita dell’architetto d’origine svizzera), Le Corbusier et la mysthique de l’Urss. Ma su entrambi i piani non ha solo scritto tanto e ha espresso letture tra le più interessanti. Cohen è stato ad esempio, seguendo peraltro la sua formazione, animatore della “bataille de Ronchamp”, quando Renzo Piano propose il suo primo progetto per il convento delle clarisse, fuori scala in quel luogo. Produsse schieramenti, manifesti, una vera messa in scena di amico/nemico. Fu un impegno tra i più vibranti e conclusi con un riprogetto del convento, che salvaguardava la poetica del luogo e dei suoi quatre horizons. A Cohen fu affidato anche il progetto scientifico del Musée Le Corbusier che si doveva costruire a Poissy.
Ma chi voglia davvero capire metodo, critica delle fonti, interpretazioni fondate su un paradigma indiziario continuamente riproposto, deve leggere quello che, per me almeno, rimane il suo testo più significativo. Non solo perché lo scrive con Monique Eleb (1945-2023), ma perché riguarda le radici di entrambi e uno dei luoghi dove più la modernità funzionalista si misura con culture millenarie: Casablanca (1999). Oggi che tutti ammiccano a un multiculturalismo da salotto, che guardano all’Africa, senza domandarsi neanche in quali tempi e modi le culture e le economie occidentali hanno segnato quei territori, Casablanca è, oggi ancora un testo senza paragoni. Certo Eleb, scomparsa anch’ella, vera cattiveria della storia, il 26 maggio di quest’anno, ha dato a quel libro in contributo metodologico, non solo scientifico, molto importante.
Per chi scrive, Cohen ed Eleb sono stati una delle case parigine più care. Quella casa studio e casa famiglia – entrambi venivano da matrimoni non riusciti – mi ha insegnato, e Cohen lo ha fatto senza accorgersene, come si può essere padre anche senza esserlo fisiologicamente. La sua vita dopo il divorzio da Eleb è stata quasi travolta da impegni e affetti, pur rimanendo l’affetto cui tornava sempre e di cui parlava più di ogni altro, anche argomento scientifico, la sua seconda figlia Vera. Cohen era uno studioso generoso e una persona davvero difficile, a volte scostante, a volte capace di dolcezze inaspettate, disponibile per tutti i veri studiosi, affezionato ai progetti culturali vicini a quella histoire croisée che ha sempre praticato. I suoi giudizi erano spesso taglienti, come per tutti gli studiosi che pensano che alla base del nostro essere in fondo dei privilegiati ci sia un dono… da restituire. E non necessariamente è la ricerca del consenso o la distribuzione di favori, anzi.
Cohen lascia molti cantieri aperti. Il più importante per l’impegno che ci stava mettendo è il catalogo ragionato dei disegni di Frank Gehry, di cui sono usciti i primi due volumi (maggio 2022). Di nuovo, come per Vers une Architecture, aveva dimostrato di controllare le non facilissime lezioni di Gérard Genette, su testo e paratesto, tra i pochissimi storici dell’architettura e dell’arte ad essere in grado di riuscirci.
Chi scrive ha perso un interlocutore privilegiato, un amico generoso, una persona difficile, le sole peraltro che ti obbligano a rapporti non banali. Perderlo è per tutti quelli che amano l’architettura un vero choc, ancor più perché inatteso. Per me è dover, ancora una volta, trasformare in ricordi e memorie quelli che sino a tre giorni fa erano dialoghi, scambi, proposte di nuovi argomenti di studio, felicità nel sentirci e vederci. La Comédie humaine si ripropone in momenti come questi in tutta la sua crudeltà. E penso a Matilde e Vera, sue figlie.
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Last modified: 10 Agosto 2023