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Laura Villa BaroncelliWritten by: Città e Territorio Forum

Città del Messico, le forme dell’acqua (che manca)

Città del Messico, le forme dell’acqua (che manca)
Nella capitale messicana la crisi idrica ridisegna coperture ed elementi dell’edificio. Un processo di adattamento per un problema sociale globale

 

CITTA’ DEL MESSICO. Nel 2010 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto l’accesso all’acqua potabile come diritto umano fondamentale. Quel voto seguiva due decenni di urbanizzazione accelerata, privatizzazione delle reti idriche e primi segnali di crisi climatica, che avevano reso la scarsità idrica un fenomeno sistemico: distribuito nello spazio, articolato in funzioni, priorità, esclusioni. La fragilità non era più confinata a singole aree marginali e la disponibilità materiale non garantiva necessariamente un accesso regolare.

Se è nelle città che questa trasformazione diventa leggibile, Città del Messico ne è un caso emblematico. Qui disuguaglianza, morfologia urbana e gestione idrica si intrecciano in modo strutturale. La scarsità non deriva solo da limiti naturali o tecnici, ma da una costruzione politica e spaziale stratificata, radicata nella frammentazione istituzionale e nella gestione differenziata introdotta dagli anni Novanta.

 

Un bene pubblico ma non per tutti in maniera eguale

Tra il 1950 e il 1990, la popolazione urbana di Città del Messico cresce da circa 3 a oltre 15 milioni, mentre la superficie urbanizzata si quintuplica. È una delle espansioni più rapide del Novecento. Nessuna infrastruttura viene adeguata alla nuova scala. Gli impianti idrici principali, come Cutzamala e Lerma, sono progettati per crisi locali, non per sostenere un’agglomerazione metropolitana in espansione continua. La crescita è disordinata, in un contesto di austerità fiscale, decentralizzazione istituzionale e frammentazione amministrativa.

Nel 1992, sotto pressione della Banca Mondiale e del FMI, il Messico approva la Ley de Aguas Nacionales. La legge definisce l’acqua bene pubblico (all’articolo 27) ma ne consente la gestione privata tramite concessioni e la decentralizza a enti locali (articoli 14, 15, 22 e 23). Questo assetto ha prodotto nel tempo una governance frammentata e diseguale, con responsabilità disperse e priorità spesso definite da logiche di mercato o clientelari.

Secondo José Mario Esparza, responsabile della Secretaría de Gestión Integral del Agua di Città del Messico, oggi oltre il 40% dell’acqua distribuita viene persa nel trasporto, a causa di infrastrutture obsolete, manutenzione irregolare e subsidenza dovuta allo sfruttamento eccessivo delle falde. Ma se il danno è strutturale i costi sociali non sono distribuiti in modo uniforme.

Secondo l’INEGI, nel 2023 solo il 58,4% della popolazione riceveva acqua in modo costante. Il restante 41,6% — circa quattro abitanti su dieci — dipendeva da turnazioni, interruzioni programmate o servizi alternativi. Con poca sorpresa, le interruzioni colpiscono soprattutto i quartieri periferici e popolari, mentre le zone centrali, commerciali o ad alta redditività mantengono una fornitura continua.

L’estetica della scarsità 

Se trattare l’acqua come bene pubblico, piuttosto che come bene comune, ne legittima una distribuzione selettiva, questa non si limita a generare disuguaglianze funzionali. La crisi idrica si iscrive materialmente nello spazio urbano. In una città dove la distribuzione è intermittente, tetti, cortili e facciate si adattano all’assenza, fino a farne un linguaggio architettonico. In molte aree la scarsità ha prodotto adattamenti minimi ma diffusi: tanques in plastica proliferano sui tetti, alcuni inglobati in volumi murari, non più come aggiunte ma come parte integrante del progetto. Dove l’acqua non è garantita, il contenitore diventa forma. 

Anche in strada, la crisi è visibile. Le pipas, camion cisterna che suppliscono all’infrastruttura, tracciano una geografia discontinua dell’accesso, mentre barili, pompe e sistemi di raccolta piovana emergono nei cortili e lungo i marciapiedi come microinfrastrutture essenziali. In quartieri popolari come Santa María la Ribera, Doctores, San Rafael, questi dispositivi si consolidano nel tempo, intrecciandosi all’estetica urbana. 

All’incrocio tra Reforma e Insurgentes, il Cocodrilo di Leonora Carrington galleggia su una fontana spenta. Di fronte, il centro commerciale Reforma 222 espone specchi d’acqua ornamentali. È un’estetica codificata negli anni Ottanta che persiste anche dove la scarsità è reale: l’acqua come presenza rassicurante, forma neutra di continuità simbolica. A Città del Messico, come notano Castro-Reguera e Ambrosi, questa presenza si moltiplica dove non serve e scompare dove è necessaria.

 

Occasione per ripensare le relazioni urbane

Dal lavandino scende un filo d’acqua. “Noi siamo fortunati – mi dice una delle ragazze di Radio Nopal, una stazione indipendente e attivista nel cuore della San Rafael – l’acqua non è mai mancata quest’anno, ma non berla, non è potabile”. Cerco di ricordarmi se l’ho già usata per fare un caffè. La crisi richiede interventi strutturali. Alcune direzioni sono già emerse: rafforzare la raccolta piovana, ripensare la permeabilità urbana, superare la frammentazione gestionale che distribuisce competenze senza coordinamento. Il diritto all’acqua esige un progetto condiviso, non solo tecnologie. 

Alcuni governi locali iniziano a integrare dimensione sociale, ambientale e infrastrutturale. Prende forma l’idea di uno spazio pubblico con una funzione anche tecnica: non solo superficie ricreativa, ma dispositivo capace di raccogliere, filtrare, contenere. È il caso di La Quebradora, a Iztapalapa, dove acqua piovana e spazio collettivo convivono in un unico sistema paesaggistico.

In questa direzione si muovono anche le Utopías multifunzionali, complessi pubblici che estendono la logica dell’infrastruttura integrata alla scala urbana. Il programma Cosecha de Lluvia, che incentiva l’installazione domestica di sistemi per la raccolta piovana, partecipa della stessa strategia. In tutti questi casi, la questione idrica non è solo emergenza, ma occasione per ripensare i rapporti tra città, natura e abitanti. 

 

Questione politica globale

Le tensioni osservate nella Valle de México non sono eccezionali: in Puglia e Sicilia, la riduzione delle piogge e la vetustà delle reti rilanciano le cisterne domestiche; in Cile centrale, i Comités de Agua Potable Rural sostituiscono lo Stato nelle aree interne; nella California meridionale, fondi d’investimento accumulano diritti idrici, ampliando il divario tra agribusiness e piccola agricoltura. Sul confine, gli Stati Uniti cercano di usare la crisi idrica a Tijuana per ottenere controllo, trasformando un problema ambientale in strumento geopolitico. 

A quindici anni dalla Risoluzione ONU del 2010, la “cittadinanza idrica” resta frammentata tra tariffe, concessioni e assenze istituzionali. Finché la governance sarà diseguale e orientata al profitto, la scarsità continuerà a sedimentarsi nei muri, nei tetti, nelle fontane spente. La crisi idrica non è solo un problema tecnico, ma una posta politica che interroga modelli di crescita, proprietà e priorità collettive. Il dibattito si sta aprendo, ma la trasformazione è lenta. 

Immagine di copertina: Rotoplas in una zona residenziale di San Rafael (foto dell’autrice). I serbatoi di questa marca sono così diffusi da essere diventati sinonimo stesso di tanque

 

 

 

Autore

  • Laura Villa Baroncelli

    Dopo la laurea in ingegneria al Politecnico di Torino si trasferisce a Parigi dove si laurea in Sociologia e inizia la sua carriera come fotografo. Nel 2015 intervista Yona Friedman e inizia ad appassionarsi di studi urbani. Lo stesso anno si trasferisce ad Arcosanti dove collabora con gli archivi Soleri e la Fondazione Cosanti fino al 2019. Il suo lavoro appare in numerose riviste tra cui il T del New York Times Magazine, M di Le Monde, D di Repubblica, IL Sole 24 ore, AD Italia, Forbes, Vogue. Attualmente vive e lavora a New York City.

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Last modified: 14 Maggio 2025