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Federica RussoWritten by: Reviews

Se Tropical Modernism fa rima con Colonialism

Una mostra al V&A di Londra sugli esiti del Modernismo internazionale in Africa occidentale e India

 

LONDRA. Per quanto sia interessante la narrazione di come la coppia britannica Jane Drew (1911-1996) e Maxwell Fry (1899-1987) a fine anni quaranta abbia esportato il Modernismo internazionale, di cui erano accesi promotori, nelle colonie del Regno, dal Ghana all’India, non sarebbe sufficiente a sostenere una mostra di tale calibro al V&A di Londra.

Questa storia, che apre la prima sala dell’esposizione, con lettere tra i due, foto storiche, disegni, manuali e modellini, e un’estensiva spiegazione del significato di Tropical Modernism, un adattamento utopico dei principi funzionali del Modernismo ai climi caldi e umidi delle colonie, è il filo conduttore usato in maniera sottile per snodare molteplici temi di attualità del dibattito architettonico oltremanica e nel mondo.

Nella prima sala, dove la narrazione ha inizio con la sezione “A Revolution in Architecture”, si delineano le figure dei due architetti. Per primo Fry, inviato in “Costa d’Oro”, attuale Ghana, già durante la Seconda guerra mondiale nel tentativo del governo britannico di sedare i venti di rivoluzione nelle colonie (“The Winds of Change”), stanziando fondi per costruire infrastrutture e scuole. Tramite il suo rapporto epistolare con Drew, s’introduce la figura dell’architetta pioniera, laureata all’AA nel 1929, che nei primi anni di carriera aveva fondato il suo studio in cui assumeva solo donne, ed era già un nome, tra le poche, nella scena architettonica britannica di quegli anni. Raggiunge Fry in Costa d’Oro nel 1944 e insieme fondano quello che viene poi definito Tropical Modernism. Costruiscono scuole, collegi, edifici pubblici e istituzioni pagate dal fondo del dopoguerra del Colonial Office, equivalente a quasi 6 miliardi di sterline di oggi, con lo scopo di riformare, ricostruire e modernizzare le colonie britanniche. Drew rimane protagonista in tutte le sale della mostra: nelle foto sui cantieri sotto al sole tropicale, in quegli uffici coloniali che erano diventati delle scuole di architettura, a Chandigarh al fianco di Le Corbusier, come memento di una parità di genere sul lavoro che paradossalmente sembrava più vicina in situazioni meno convenzionali.

 

Un laboratorio sperimentale tra Africa e India

L’Africa dell’Ovest divenne un laboratorio sperimentale per gli architetti britannici che ottennero opportunità e commissioni che non avrebbero mai avuto in terra natia, e nel 1950 si spostarono anche in India chiamati dal nuovo presidente Jawaharlal Nehru per costruire la nuova città di Chandigarh, commessa a cui invitarono Le Corbusier.

Già nella prima sala la sezione “Hidden Figures”, dedicata ad architetti africani quali Theodore Shealtiel Clerk e Peter Turkson, di cui solo recentemente è stato riconosciuto il contributo dato al team di Fry e Drew, si apre il grande tema dell’integrazione in architettura, che viene sviluppato nelle sale successive con “Temple of Modern India” e “Ghana Land of Freedom”. Dall’incredibile filmato di Alain Tanner del 1966 è chiaro come la questione del Tropical Modernism fosse controversa: asini, bambini e donne trasportano materiale edile, mentre uomini se lo lanciano l’un l’altro quasi a formare una gru umana nel cantiere dell’High Court di Chandigarh, perché come disse Drew “era più economico usare 700 persone che prendere un escavatore”. Numerosi gli architetti indiani, tra cui Aditya Prakash e Giani Rattan Singh, che parteciparono alla grande opera nell’intento di Nehru di fondare una vera scuola di architettura sul campo, ma che ebbero pochi riconoscimenti nella storia del Modernismo e di Chandigarh. Infine si torna in Ghana, quasi a chiudere un cerchio, osservando la politica di Kwame Nkrumah, primo ministro dopo l’indipendenza, il quale si riappropriò del Tropical Modernism come simbolo dell’internazionalità e del progresso nel suo paese invitando architetti ghanesi come Victor Adegbite a definire un nuovo linguaggio moderno e fondando scuole per formare gli architetti del futuro nei propri confini.

La mostra si chiude con The Legacy of Tropical Modernism, un video immersivo su tre schermi che si focalizza su 16 edifici simbolo del Tropical Modernism, ancora oggi esistenti in Ghana. Interviste, filmati, foto panoramiche che portano una domanda: l’eredità del Tropical Modernism e le sue lezioni su come costruire in climi caldi in maniera più consapevole e responsabile, semmai fu fatto, può insegnarci qualcosa per affrontare la crisi climatica?

Questa mostra è il risultato di una ricerca già inizialmente esposta alla Biennale di Venezia del 2023, condotta dagli architetti e docenti Nana Biamah-Ofosu e Bushra Mohamed, con i curatori del V&A Christopher Turner e Justine Sambrook. È un’intricata matassa di domande, spunti e riflessioni politiche, sociali, culturali sulla figura della donna, il colonialismo geografico e culturale, l’integrazione e la crisi climatica. Non trae conclusioni ma lascia queste domande aperte alla discussione e al dibattito odierno.

Immagine di copertina: © Victoria and Albert Museum, London

 

Tropical Modernism: Architecture and Independence
fino al 22 settembre 2024
V&A South Kensington, Londra
vam.ac.uk/exhibitions/tropical-modernism-architecture-and-independence

Autore

  • Federica Russo

    Laureata all’Università “La Sapienza” di Roma, è co-fondatrice dello studio di architettura Valari. Ha lavorato in studi internazionali come Haworth Tompkins e Allies & Morrison a Londra, VYA nei Paesi Bassi e Massimiliano Fuksas a Roma. Dal 2006 ha collaborato come giornalista freelance per diverse testate d’architettura tra cui Artribune, Compasses, Presstletter, Livingroome, a edizioni speciali de L’Arca e A10 ed è co-autrice del libro “Backstage Architecture” (2011)

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Last modified: 25 Maggio 2024