In varie città degli Stati Uniti, gli esiti delle disinvolte operazioni immobiliari del colosso digitale per la mobilità condivisa. Salvo ripensamenti post pandemici
Uber, la famosa piattaforma digitale per la mobilità urbana condivisa, è cresciuta vertiginosamente nel suo primo decennio di attività grazie a una fortunata intuizione e a un modello di business decisamente rampante. Presente in oltre 785 aree metropolitane nel mondo, 110 milioni di utenti mobilitati, copre il 67% del ride-sharing negli Stati Uniti. E come, se non più di altri protagonisti della gig economy, produce squilibri ben al di là dei volumi di traffico – occupa spazi, orienta mercati immobiliari, favorisce derive di gentrificazione urbana.
Un esempio: nel centro di Oakland Uber aveva acquistato nel 2015 la Uptown Station, un enorme grande magazzino degli anni ’20 danneggiato dal terremoto del 1989. Lo ha riplasmato su un progetto da 40 milioni di dollari firmato da Gensler, mega studio del settore corporate – 48 sedi nel mondo, più di seimila collaboratori. Il vecchio edificio è stato spolpato fino alle strutture, si è ricavata una hall alta 25 metri per illuminare gli spazi commerciali al piano terra. Doveva diventare il nuovo quartier generale della East Bay per tremila nuovi addetti. Tanto da sollevare la campagna No Uber Oakland da parte di un’organizzazione locale che si occupa di giustizia razziale ed economica. Più semplicemente, dopo tanto clamore, l’immobile è stato rivenduto due anni più tardi per 180 milioni di dollari, nel tentativo di tamponare le inesorabili perdite aziendali.
Perché l’evento mondiale Covid-19 dalla scorsa primavera ha ulteriormente rimescolato le carte, con forte danno per l’azienda e qualche buon assist mediatico. Molti dei cantieri per l’apertura di nuove sedi sono stati prudenzialmente congelati, o sottoposti a una forzata rimodulazione. Il giro d’affari di Uber si è infatti drasticamente ridimensionato per effetto del lockdown – in tutte le principali città degli Stati Uniti le corse sono diminuite dell’80%. Ma su questo le dichiarazioni ufficiali del management tendono ovviamente a glissare.
Chicago ospita la divisione logistica della società, Uber Freight, l’unico ramo di business ancora in crescita. Da programma, gli uffici in loco avrebbero dovuto spostarsi a breve su un intero piano dell’enorme Old Post Office restaurato, nel cuore affaristico della città investito da un boom edilizio ormai decennale. L’idea era quella di formare un unico grande hub del trasporto merci – 42.000 mq, duemila nuovi impiegati. Il centro logistico, previsto per l’autunno, rientra in una politica di headquarters satellite, a diversa specializzazione, affiancati alla casa-madre di San Francisco. Il palazzone Déco posto simbolicamente a cavallo della Eisenhower Expressway è stato oggetto nei mesi scorsi di una vasta commessa allo stesso studio Gensler da parte di un developer newyorkese. Da cui il completo ridisegno interno, con frazionamento degli enormi ambienti voltati, duemila nuove aperture nelle facciate, predisposizione di un giardino pensile e di una serie di terrazze sul fiume. Il tutto calzava a pennello con lo slogan “benessere dei lavoratori ergo creatività” sbandierato dalla comunicazione aziendale di Uber. Ma con l’acuirsi della pandemia si è deciso di procrastinare l’insediamento di un anno. Va detto che in fase stay home Chicago aveva fermato tutto tranne il settore edile: di fatto, gli altri grandi affittuari dell’immobile, a cominciare dal “Chicago Tribune”, hanno portato a termine i loro cantieri anche durante il lockdown. Molti sono dunque i dubbi sulle reali ragioni sottostanti il fermo lavori da parte di UBER, come riportano varie testate americane: la necessità di tagliare costi per una crisi preesistente alla pandemia e in gran parte riconducibile al fallimentare ingresso in borsa dello scorso anno.
Finora lo schema è stato sempre più o meno lo stesso. Si tratta per lo più di operazioni di riuso di prestigiosi contenitori storici, posti nelle aree centrali, che faranno da volano al mercato fondiario circostante. Uber propaganda pubblicamente una svolta per la città, contratta importanti vantaggi fiscali con le autorità locali appellandosi a generose prospettive occupazionali e a investimenti diffusi per la comunità – per esempio bonus sui trasporti per le categorie svantaggiate. Salvo poi, a seconda delle convenienze, dileguarsi.
Anche per la prevista sede di Dallas, individuata come epicentro del settore air taxi, il futuro è piuttosto incerto. Dopo i primi 700 dipendenti insediati nel grattacielo a uffici “The Epic”, uno sviluppo ad usi misti progettato da un altro mega studio – Perkins+Will – sul fronte est del centro urbano, Uber dovrebbe erigere una nuova torre di 23 piani per tremila nuovi addetti entro settembre 2022. Una previsione, allo stato attuale, fantascientifica.
In era Covid-19 tutti gli sforzi di Uber sono stati invece convogliati sull’ultimazione, già più volte rinviata, della sua prima iniziativa edilizia ex novo, la sede di Mission Bay a San Francisco. Un complesso da 39.300 mq su progetto dei newyorkesi SHoP Architects, concepito nel 2015 in chiave eco-green. I quattro blocchi interamente vetrati (la realizzazione delle facciate “intelligenti” è in capo alla Permasteelisagroup) celebrano una pretesa trasparenza aziendale. Un sistema di corti semi-pubbliche denominato i Commons allude all’osmosi fra la company e la pulsante vitalità del contesto urbano in cui opera – motivo ricorrente anche negli altri progetti. Il nuovo campus è destinato a soppiantare a breve la casa-madre storica, sin qui collocata in un interessante edificio per uffici del 1979, l’ex Bank of America Data Center (Steven Tipping & Associates). Dove la società, negli anni, ha via via acquisito piani diversi, ricreando ad arte negli interni atmosfere in stile start-up – solai a vista, calcestruzzo grezzo, vecchie ricevute di taxi e citazioni scarabocchiate alle pareti.
Street-style, valorizzazione del passato e sviluppo sostenibile mascherano a malapena le strategie aggressive del colosso della Silicon Valley. Dove l’occupazione di suolo e l’evidente gigantismo dei progetti sono l’inevitabile proiezione territoriale di una politica di espansione economica ad ogni costo. Ma tutto soggiace alla futura evoluzione della pandemia.
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coronavirus , stati uniti
Last modified: 29 Luglio 2020