La “lunga durata” di un protagonista e dei partner del suo studio americano, alla ricerca di un moderato monumentalismo dalla geometria quasi pura
Le eredità e la storia
È difficile riassumere l’excursus di un architetto al momento della sua scomparsa. Non si tratta infatti di ricostituire un mero elenco dei progetti realizzati, o di comprendere solamente l’incisività che tale operato ha avuto all’interno dell’ambito più specificatamente operativo, quanto di misurarne la ricaduta complessiva, dato l’ampio raggio che tale professione comporta. La recente scomparsa di vari rappresentanti eccezionali dell’architettura (Kevin Roche e Robert Venturi fra gli altri), così come la loro lunga presenza nel panorama costruito, può – o, meglio, si spera, possa – consentire a breve di approfondire l’effettiva portata di tale lascito e dell’incidenza del loro contributo in un momento in cui la “medialità” fornisce nuovi dati, altri ne appanna e soprattutto rende manifesta la necessità di altri metodi di valutazione critica. In altre parole, è il problema di come metabolizzare questo patrimonio una volta quasi giunto alle soglie della storicizzazione.
La fortuna del “caso Pei”
L’ultimo caso, è quello riguardante Ieoh Ming Pei, spentosi la scorsa settimana a New York all’età di 102 anni; autorevolissimo rappresentante di uno studio espansosi negli anni includendo grandi progettisti e attualmente ancora operativo per mano dei figli. Il “caso Pei” è interessante non solo per la ricchezza del costruito (uffici, municipi, musei, ospedali, etc.), ma per una peculiarità: aver evitato il timbro di una formalità espressiva precostituita ed ossessiva; quella che consente l’individuazione e la paternità immediata di molte delle architetture contemporanee, a favore della ricerca di un metodo, legata solo “a posteriori” alla determinazione formale, conservando e privilegiando attitudini progettuali ricorrenti, come è giusto che sia.
Pei, cinese di nascita e americano per scelta e formazione, si forma – come molti dei grandi – nei santuari dell’East Coast: Pennsylvania University, Mit, e Harvard a laurea ottenuta. Quanto basta per garantirgli una prima continuità lavorativa su progetti a larga scala con un immobiliarista quale William Zeckendorf e poi procedere alla fondazione di un proprio studio, successivamente allargato ai soci e quindi divenuto Pei, Cobb, Freed & Partners. Il team di Palazzo Lombardia a Milano, per intendersi, là dove tornano le linee curve forse rivelatrici di un ultimo Henry Cobb (1926), chairman ad Harvard e grande protagonista dello studio come dello scenario newyorkese a sua volta.
Una partenza più che interessante
A Kips Bay Plaza nel 1963 appare uno dei primi – se non il primo – complesso residenziale in cemento armato con cui il Modernism approda a Manhattan. Con replica nei tre edifici delle Silver Towers a cavallo della 30°, dove griglia, colore e ubicazione sono più accattivanti del proposto e mai realizzato progetto di Mies van Der Rohe per Battery Park. Ma qui si tratta di uno studentato. Questi edifici non sono un’indagine sul Moderno. Rivelano un Modernism assimilato che verrà applicato non come strategia progettuale identificativa ma come soluzione tattica suggerita dall’area. Non a caso la ritroveremo, sempre in una residenza e sempre a Manhattan – nel futuro 2007 – in un razionalissimo corpo di appartamenti sulla 56° west: The Centurion. Sono solo 17 piani, ma come avrà giustamente modo di affermare lo stesso Pei, “non devi essere grande per essere bello”. Avrà modo di testare l’altezza di lì a poco con il John Hancock a Boston. Il nothced rhomboid (parole di Cobb), o romboide dentellato, è il primo grattacielo americano ad essere totalmente rivestito in pannelli di vetro con telaio a scomparsa. Pannelli il cui distacco – non dovuto a problemi di progettazione ma inerenti il vetro – come la loro sostituzione, portano lo studio sull’orlo della scomparsa. Una fibrillazione superata da una mole di lavoro culminata con la realizzazione dell’East Building della National Gallery a Washington. Un test con la quarta dimensione: riuscitissimo. L’edificio sfrutta le difficoltà del trapezio di base su cui insiste per formare una massa monumentale ma dinamica grazie ai coraggiosi tagli a coltello e alla semplicità di una foratura che vince la gravità volumetrica, realizzando uno degli atrii più belli della museografia moderna.
I riconoscimenti
Il museo di Washington gli guadagna la fama, ed anche la Medaglia d’oro dell’American Institute of Architects (il Pritzker arriverà nel 1983), nonché la conferma per un interesse particolare per l’architettura museale secondo un percorso che culminerà con l’incarico e la realizzazione del Grand Louvre a Parigi, terminato nel 1989, sigillando successo e popolarità ma soprattutto riconfermando il privilegio per un monumentalismo moderato dalla geometria quasi pura di quest’architettura fatta d’idee.
Ma in mezzo c’è tanto
Solo per citare i più noti interventi, c’è il faticoso progetto della Kennedy Library a Boston (15 anni), affidatogli personalmente da Jackie Kennedy nel 1964 bypassando pretendenti di prestigio; c’è il Portland Museum; e c’è il più grande intervento orizzontale di New York, il nero Jakob Javitz Center nell’area ancora deserta del West Side. Sono gli anni ’80. Pei è già tornato in Cina, ha rifiutato l’incarico di una serie di alberghi a Pechino (avrebbero deturpato il centro, a suo avviso) e quasi terminato la costruzione di un complesso alberghiero denominato Fragrant Hill, così come uno dei grattacieli più emergenti dal caotico panorama di Hong Kong: quello della Bank of China, dove la grande triangolazione diamantata e assolutamente geometrica rafferma il principio della semplicità non solo formale ma attitudinale della sua progettazione. Tradita forse solo dalla pausa un po’ “post” del Four Seasons a New York fra la 57° e la 58°. Paul Goldberger – nell’omaggio che il «New York Times» gli ha dedicato – parla di un «design talent but also of his patience and perseverance» di lecorbusieriana memoria. Pazienza per l’uso di un metodo che trova la forma solo in relazione al senso e alla cultura del luogo. Come è evidente in uno degli ultimi suoi progetti: il Museum of Islamic Art a Doha, capitale del Qatar. Accettato con riluttanza, pare – ma sembra credibile – a causa della sua presunta scarsa conoscenza della cultura locale, poi ampiamente rielaborata e risolta con la solita umile intelligenza.
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